Verso la domesticazione

Di Barbara Noske.

Tratto da: B. Noske, Beyond Boundaries. Humans and Animals, Black Rose Books, New York, 1997.

Traduzione di Stefania Bisacco originariamente pubblicata su Diogene – Filosofare oggi, n°22 (marzo-maggio 2011), pp. 60-62.


La vasta gamma di relazioni tra esseri umani e animali

Le relazioni tra esseri umani ed animali sono esistite fin da quando l’umanità fece la sua comparsa nell’evoluzione. Dal principio esseri umani e animali interagirono in rapporti di tipo predatore – preda: gli umani cacciando, catturando e pescando altri animali, e gli animali predatori a loro volta catturando occasionalmente esseri umani. A parte questi scambi di tipo “economico” tra uomini e animali, i primi devono aver sperimentato emozioni e pensieri relativamente agli animali che incontravano, così come gli animali nei confronti degli esseri umani. Sappiamo che, a partire già da tempi remoti, gli animali hanno avuto un ruolo importante in rituali, religioni e modi di percepire il mondo propri degli umani.

Nel corso della storia umana, le relazioni tra esseri umani e animali hanno assunto un’ampia varietà di forme nelle diverse società umane e ambienti naturali, a partire dalle relazioni più pratiche e materiali, specialmente quelle tra gli umani e gli animali che sono stati addomesticati.

Ma cos’è la domesticazione e come iniziò a svilupparsi questo tipo di relazione tra gli esseri umani e gli animali? Mentre al giorno d’oggi virtualmente ogni animale vive di fatto in un qualche contesto umano, nel passato i contatti tra umani e animali potevano verificarsi solo nel caso di una coincidenza, a un certo punto e in un dato momento, tra un sistema di sussistenza umano e il ciclo di sussistenza geografico e stagionale di una data specie animale. Con ciclo di sussistenza stagionale si intende il modo in cui una specie si relaziona alle risorse dalle quali dipende, seguendo il ciclo delle stagioni. Quando i cicli di sussistenza effettivi di umani e animali non coincidono spontaneamente, possono essere fatti coincidere, sia dagli umani che dagli animali: ambedue possono adattare il proprio ciclo così da sfruttare le “risorse” dell’altra specie.

La relazione sociale tra due specie come stadio preliminare della domesticazione

La relazione sociale che è tipica della domesticazione non è affatto limitata all’Homo sapiens e una data specie animale. È risaputo che anche le società animali praticano la domesticazione. Diverse specie di formiche «addomesticano» altri animali – come gli afidi che vengono “munti” – o praticano qualcosa di simile alla nostra agricoltura con diversi tipi di funghi.

In generale, perché la domesticazione abbia esito positivo, le due specie coinvolte devono essere animali sociali, o almeno doveva essere così in passato. Gli animali che vivono in società appaiono più predisposti ad instaurare una relazione sociale con membri di altre specie rispetto agli animali solitari.

Diversi tipi di rapporti sociali tra umani e animali, come la simbiosi, il parassitismo, le ruberie nei campi da parte di animali «nocivi» e lo sterminio di questi ultimi da parte degli umani, possono favorire lo sviluppo della domesticazione.

Nel corso del contatto tra esseri umani e animali, sono state rese domestiche molte più specie di quanto generalmente si pensi. Tra queste possiamo citare: leoni, babbuini, gazzelle, antilopi, iene ippopotami, rane, avvoltoi, struzzi, ghepardi, cicogne, aironi, ibis, lepri, cacatua bianchi, zebre e svariati animali marini quali ostriche e murene. Soltanto in numero relativamente basso le domesticazioni sono sopravvissute fino ai tempi moderni. Ciononostante, vi è la tendenza a considerare la relazione di domesticazione come una sorta di culmine evoluzionistico: come se, una volta che una specie sia stata addomesticata, resti in tale stato per sempre. Questo punto di vista corrisponde molto poco alla realtà storica.

La domesticazione come concetto

Per definire la domesticazione, uso di preferenza la definizione di Wilkinson: quella situazione in cui gli umani impongono cambiamenti al ciclo di sussistenza stagionale degli animali.

Questo modo di guardare al fenomeno della domesticazione è abbastanza nuovo. In genere veniva definito come “la cattura e la doma, da parte dell’uomo, di animali appartenenti a specie con determinate caratteristiche comportamentali, la loro rimozione dal proprio habitat e comunità riproduttiva naturali, e il loro mantenimento in condizioni di allevamento controllate a scopo di lucro”. Tale definizione potrebbe apparire appropriata se non fosse che si riferisce solo alla situazione attuale della maggior parte degli animali domestici. Eppure la situazione attuale è il prodotto finale di uno sviluppo che ha avuto luogo per migliaia di anni. Esistono validi motivi di ritenere che la cattura, la doma e l’isolamento riproduttivo non fossero le caratteristiche né necessarie né principali degli animali addomesticati nei primi stadi della domesticazione.

La definizione di domesticazione di Wilkinson mi sembra preferibile perché dà l’idea di un continuum nella relazione umano-animale, invece di dipingere il soggetto umano come colui che manipola attivamente e deliberatamente un oggetto animale passivo. La definizione di Wilkinson tiene in considerazione l’ecologia delle due specie, che nella definizione tradizionale viene del tutto ignorata.

Una volta che la domesticazione ebbe inizio, l’interferenza umana si intensificò, almeno in un certo numero di casi. Vennero soggiogati numeri di animali sempre maggiori, e l’allevamento cominciò ad aver luogo in cattività mentre il contatto con i parenti selvatici venne eliminato del tutto. Il risultato di questo processo fu la creazione di un gruppo domestico separato con le proprie caratteristiche specifiche. In uno stadio ulteriore, gli esseri umani procedettero alla selezione deliberata di tratti peculiari nei propri animali attraverso l’allevamento selettivo. L’ibridazione con i parenti selvatici venne progressivamente evitata, e alla fine gli equivalenti selvatici degli animali domestici cominciarono ad essere visti come una minaccia per il bestiame.

>La domesticazione animale come processo storico

La domesticazione degli animali è considerata solitamente parte della rivoluzione neolitica, la transizione da uno stile di vita di caccia e raccolta a quello da agricoltori. La coltivazione delle piante e la domesticazione degli animali tende ad essere perciò facilmente considerata alla stessa stregua, come parte dello stesso processo. Questo appare poco probabile per due motivi.

Il primo è che la domesticazione animale ha lasciato assai meno tracce nei ritrovamenti archeologici rispetto alla coltivazione delle piante. In secondo luogo, le rivoluzioni neolitiche hanno avuto luogo nel Nuovo Mondo praticamente senza alcuna forma di domesticazione animale; le poche domesticazioni che ebbero luogo (di porcellini d’India, lama, alpaca, tacchini, tra i pochi esempi) non coincisero temporalmente con l’inizio dell’agricoltura. In altre parti del mondo comunque, in special modo nel Vicino Oriente, una correlazione di tempo e luogo è stata dimostrata. Il dibattito attuale sulle origini della transizione all’agricoltura chiarisce in modo netto che abbiamo a che fare con un fenomeno molto complesso. Sono stati suggeriti numerosi fattori in grado di contribuire a questo cambiamento radicale, ma fino a oggi non si è giunti ad un vero accordo.

Per milioni di anni l’umanità ha vissuto della raccolta di cibo anziché della sua produzione. Per quale motivo allora esseri umani dediti alla raccolta e alla caccia che vivevano in parti del mondo lontane e differenti tutto d’un tratto cominciarono a dedicarsi all’agricoltura? È noto che i cacciatori e raccoglitori contemporanei vivono bene e sono in salute. Ci si ritrova a domandarsi per quale motivo ebbe luogo questa transizione, anche in considerazione del fatto che la maggior parte delle società di cacciatori raccoglitori non si sono trasformate in società agricole esperte. Questo dubbio appare particolarmente giustificato per il fatto che la gente non poteva prevedere i risultati dell’agricoltura nel tempo.

La maggior parte degli studiosi concorda nell’identificare un qualche fattore di stress che avrebbe forzato le società ad adeguarsi alle nuove circostanze che si verificarono. Sono qui menzionati alcuni fattori, ma è molto improbabile che si siano presentati tutti nelle differenti parti della terra in cui la transizione ebbe luogo.

1) Il cambiamento climatico. I primi segni dell’agricoltura ebbero luogo nel periodo immediatamente successivo all’ultima glaciazione. Benché la teoria dell’inaridimento sia stata abbandonata da molto tempo, alcuni studiosi individuano ancora nel cambiamento climatico un fattore importante nello sviluppo dell’agricoltura.

2) Il determinismo tecnologico. L’idea, cioè, secondo la quale l’umanità è costantemente alla ricerca di modi per migliorar le proprie forze di produzione. I sostenitori di questo punto di vista vedono l’agricoltura come il risultato automatico dell’inventiva che scaturisce dal buon senso stimolato da determinati cambiamenti ambientali, che offrirono nuove opportunità di controllo umano sulla natura. Si pensa che ciò abbia a sua volta portato ad un livello superiore di tecnologia e a strutture sociali ancora più avanzate.

3) Il fattore demografico. I cacciatori raccoglitori, che normalmente sono capaci di supportare piccoli gruppi umani in un determinato spazio, devono essersi alla fine diffusi su tutta la Terra. La risultante pressione demografica sulle risorse disponibili avrebbe forzato le popolazioni umane a modificare il proprio ciclo di sussistenza.

4) Il sedentarismo. È la causa dell’aumento demografico. Ma il fatto che il sedentarismo possa essere stato un fattore causale nello sviluppo dell’agricoltura resta dubbio. Alcune evidenze provenienti dal Nuovo Mondo puntano in un’altra direzione. In Messico, per esempio, la popolazione si era già da lungo tempo stabilita (almeno tre millenni) prima dell’avvento dell’agricoltura.

5) L’antropomorfizzazione. I cambiamenti indotti dagli esseri umani sull’ambiente, come l’estinzione della megafauna prodotta da una caccia eccessiva, o l’incendio delle boscaglie provocato dall’uso del fuoco.

In conclusione, non esiste alcuna valida ragione per presupporre un legame complessivo tra la domesticazione degli animali e la domesticazione delle piante (l’agricoltura). I due tipi di domesticazione possono aver avuto origine comuni nel Vicino Oriente e nel Sud-Ovest asiatico, ciononostante non è ancora chiaro come il riunire mandrie di animali possa entrare in relazione con la pressione demografica, e se tale relazione sussista realmente.

Ambedue i tipi di domesticazione in ogni parte del mondo sono stati causati con tutta probabilità da un’interazione di fattori ecologici, demografici e tecnologici. Il tentativo d’isolare uno di questi fattori come quello decisivo porterebbe inevitabilmente ad una semplificazione eccessiva della realtà storica e risulterebbe precisamente in quella sorta di determinismo che dovremmo cercare di superare.

Dobbiamo inoltre imparare a inserire la domesticazione animale in una prospettiva storica ed ecologica delle relazioni tra animali ed esseri umani. Relazioni che, in tempi moderni, sono cambiate drasticamente sotto l’impatto del capitalismo industriale, ed hanno assunto una forma qualitativamente assai differente. Mentre infatti nei tempi antichi il ciclo di sussistenza dell’animale restava in buona parte intatto, siamo oggi arrivati a uno stadio in cui gli animali sono stati quasi interamente incorporati nella tecnologia umana: il capitalismo attuale tende ad eliminare nell’animale tutto ciò che non può essere reso produttivo. E mentre nei primi stadi della domesticazione gli umani, invadendo i sistemi sociali degli animali, entravano a farne parte, nel capitalismo industriale tali sistemi sono distrutti e gli animali sono stati ridotti a mere appendici dei computer e delle macchine.

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