Approssimazioni ad una storia animale: recensione di «Le point de vue animal» di Éric Baratay

Di Brunella Bucciarelli


Eric Baratay, attualmente docente all’università Jean Moulin – Lione 3, si occupa da più di quindici anni di storia delle relazioni umano-animale; all’inizio del 2012 ha pubblicato un nuovo lavoro, Le point de vue animal. Une autre version de l’histoire (Seuil, Paris 2012), dove la ricostruzione dettagliata di cinque episodi della storia umana costituisce il campo di prova per una riflessione sulla storicità degli animali e sulle caratteristiche di una storiografia che intenda fare di quella il suo oggetto specifico. Le cinque storie proposte sono state scelte secondo criteri usuali della storiografia: ricostruzione dell’evoluzione di fenomeni che hanno avuto un certo rilievo nella società francese fra la fine del XVIII e l’inizio del XXI secolo, periodo nel quale hanno presentato dei notevoli cambiamenti e rispetto a cui disponiamo di un’abbondate quantità di fonti.

Nel capitolo intitolato significativamente «Vite di proletari», Baratay ricostruisce la situazione dei cavalli impiegati nelle miniere di carbone e di quelli adibiti al trasporto urbano: i criteri in base a cui avveniva la scelta dei soggetti, gli orari di lavoro e gli strumenti impiegati (i tipi di bardature, le modalità di discesa dei cavalli nelle gallerie, etc.), le condizioni di vita, come l’alloggio e l’alimentazione, i rapporti con i lavoratori umani. Prende poi in considerazione il percorso che ha portato dalle mucche polivalenti e caratterizzate da varianti regionali, alla loro specializzazione come produttrci di latte e alla selezione di razze con caratteristiche orientate a tale funzione; si seguono poi le varie modalità di gestione delle mucche da latte, dal regime misto stalla-pascolo, alla reclusione in stalle periurbane fino ai moderni sistemi automatizzati. Nel capitolo «Il fardello delle violenze» viene ricostruita la situazione degli animali durante la prima guerra mondiale, in particolar modo dei cavalli e dei cani; sempre nello stesso capitolo Baratay ricostruisce le vicende dell’introduzione della Corrida nel sud della Francia ed i cambiamenti che si sono verificati nel suo svolgimento. Infine l’autore segue la situazione dei cani nelle campagne ma soprattutto nelle grandi città per lo più francesi; si tratta in questo caso di una ricostruzione storica per necessità particolarmente fugace, volatile, trattandosi spesso di situazione individuali, e come tali molto mutevoli e poco documentate.

Ma tale iniziale delimitazione dell’oggetto di studio è puramente indicativa e provvisoria, ed è dettata anche in parte dalla necessità tattica di non allontanarsi troppo dalla concezione dominante della storia, nel cui campo invece gli studi quì condotti vogliono situarsi. L’esperimento che l’autore vuole tentare in questo testo è infatti quello di scrivere una storia degli animali, dal loro punto di vista, cosa che implicherò necessariamente una modificazione profonda del campo stesso della storiografia:

…cercherò di rivoltare la storia per fare non una storia dell’allevamento ma del bestiame, non una storia dei trasporti ma dei cavalli da tiro, non della corrida ma dei tori… cioè non dei modi di arruolare ed utilizzare gli animali, ma di ciò che essi vivono, sentono, provano, prestando quanta più possibile attenzione alle posture, ai gesti, alle grida. (p. 65)

Ora, considerando che il campo storiografico e la realtà che esso intende descrivere, il divenire temporale storico, è stato oggetto, dai primi decenni del ’900, di numerosi dibattiti e ridefinizioni, bisognerà precisare perchè e come, secondo Baratay, proprio la storia animale abbia un impatto così dirompente su di essi. Considereremo vari elementi che ci aiutano ad approssimarci ad un progetto di cui l’autore sottolinea il carattere sperimentale.

Scienze della storia e scienze della natura

La frattura fra le discipline che hanno ad oggetto fenomeni naturali e quelle che si occupano di fenomeni storico-culturali ha avuto, volendosi limitare agli ultimi due secoli, alterne fortune; e, nonostante appaia come un’evidenza comune e radicata della nostra cultura, è sempre stata contestata: nel periodo che vede l’affermarsi del positivismo, le emergenti scienze umane, come la sociologia e la psicologia, ambiscono a costituirsi come scienze a tutti gli effetti, con le loro costanti e leggi evolutive, dunque come parte delle scienze naturali. Al volgere del secolo però, con la nascita dell’antropologia culturale ed in particolare con Boas, le nuove discipline sociali prenderanno la strada della ricerca di un oggetto proprio, dotato di caratteristiche autonome ed irriducibili: la cultura appunto, come fenomeno specifico dell’essere umano1. Tuttora, almeno nel panorama francese ed italiano, le resistenze verso oggetti e metodi considerati attinenti al sapere scientifico, sono consistenti fra gli studiosi di scienze umane. Non mancheranno tuttavia contestazioni a tale impostazione, soprattutto per quanto riguarda la centralità dell’umano e la sua indipendenza dalla natura, come nel caso non trascurabile dell’antropologia di Lévi-Strauss. Per quanto concerne poi più propriamente il campo storiografico, la scuola raccolta intorno alla rivista Les Annales, che inizia la sua pubblicazione nel 1929, farà rientrare in esso molti elementi fino ad ad allora ritenuti estrinseci, come la geografia o la demografia; nonostante tale importante rinnovamento del campo storiografico, il peso preponderante che vengono ad assumere in tale scuola i fenomeni economici e sociologici a discapito di altri elementi, finirà per confermare un’interpretazione fondamentalmente antropocentrica : la storia è «scienza degli uomini nel tempo»2. Insomma, se l’inclusione nel campo storiografico di nuovi fattori appartenenti alla realtà fisica e naturale, per quanto importante, è presa in considerazione solo relativamente all’umano, se nuovi elementi vi compaiono come oggetti forse potenti ma fondamentalmente inerti del suo divenire, l’impostazione antropocentrica della storiografia non ne risulterà fondamentalmente alterata.

È quanto avviene anche nella maggior parte degli studi che prendono ad oggetto il rapporto umano-animale, studi che, a partire dalla metà degli anni ’80 del secolo scorso, hanno una vera e propria esplosione all’inizio del nuovo millennio. L’entusiasmo per le enormi possibilità che il nuovo campo offre rispetto ad oggetti più frequentati, si limita per lo più ad allargare i confini di una storia che rimane centrata sull’essere umano come unico agente: i temi privilegiati degli storici riguardano gli impieghi materiali degli animali e il loro ruolo nell’economia, i conflitti che intorno ad essi si creano fra raggruppamenti sociali o la loro funzione nella costituzione dell’idea che una cultura si fa di se stessa, del mondo o della società . Gli animali vi compaiono solo come strumenti per significare e trasmettere qualcos’altro; in essi “l’animale permette l’analisi dei comportamenti umani, è pretesto di studio senza essere veramente oggetto di studio, e tanto meno soggetto” (p. 19) . La moda dei Cultural Studies poi, affermatasi negli anni ’90, accentuerà ancor più questa tendenza, fino a porre in dubbio la possibilità stessa di ricostruire una storia animale, come vedremo analizzando il problema delle fonti.

Baratay indica due ragioni di questa situazione: la prima è di ordine pratico, e consiste nel disagio di dover affrontare la condizione spesso miserabile degli animali e la violenza che molte pratiche umane comportano nei loro confronti; gli storici si conformano ad un imperativo di neutralità che non volendo rischiare di sollevare problemi etici rispetto all’oggetto dei propri studi, preferisce tacerne alcuni aspetti, impedendo così anche una conoscenza più esaustiva della pratiche umane stesse. La seconda ragione, connessa con la prima, è radicata nel pregiudizio antropocentrico che ha dominato gli studi storiografici nell’ultimo secolo, il quale ha indotto a trascurare tutti quei fenomeni, tuttavia massicci, che vedono la partecipazione degli animali agli eventi umani; una cecità che porta a leggere i documenti che li riguardano come aneddoti insignificanti, forzature sentimentali o letterarie. Si tratta di una teoria dell’eccezione umana difficilmente ammissibile alla luce delle nuove acquisizioni scientifiche sulla realtà animale, una chiusura disciplinare degli studi storici che risulta ormai anacronistica:

Lo storico deve impadronirsi delle conoscenze dei naturalisti, imparare a padroneggiarle e ad utilizzarle per proprio conto, come ha fatto, qualche decennio fa, con quelle degli economisti, dei sociologi, dei demografi, degli etnologi, che costituiscono da allora un bagaglio obbligato, senza il quale si troverebbe sguarnito nello svolgimento del suo lavoro. (p. 56)

Non si tratta insomma, precisa Baratay, di incrociare discipline diverse per elaborare la conoscenza un oggetto che esse avrebbero in comune. Ciò che egli ha in mente quì è pur sempre un lavoro storiografico a tutti gli effetti, intendendi con ciò la ricostruzione documentata dei cambiamenti di un soggetto nel tempo. Se le acquisizioni delle scienze naturali risultano fondamentali nella ridefinizione del campo storiografico è perché esse convergono sostanzialmente nell’accordare agli animali, o almeno ad alcune specie, «capacità di valutazione e di sentimento, possibilità di interpretazione, di comunicazione, di iniziativa e adattamento» (p. 45). Gli studi più promettenti dell’etologia cognitiva e della neurobiologia riconoscono negli animali degli esseri viventi con caratteristiche che li differenziano dalle piante3 e da altri elementi dell’ambiente, mentre a vari gradi li avvicinano alle caratteristiche proprie della specie umana. È pertanto altamente probabile che la loro temporalità peculiare abbia caratteristiche almeno analoghe a quella che, nel caso della specie umana, definiamo storia : «gli animali si inscrivono in una seconda storia, quella degli Altri, occupando così un’intersezione originale» (p. 49). Insomma il vero elemento dirompente nel campo storiografico non è tanto la messa in causa del dualismo natura/cultura, ma di quello umano/animale4; non l’inclusione di elementi causali tratti dal contesto naturale, ma la scoperta di un vero e proprio soggetto: «La storia allargata ai non -umani diviene indispensabile nell’epoca dell’ecologia e dell’etologia» (p. 49).

Per situare meglio questo progetto, può essere a mio parere utile ricordare che, a partire dalla metà degli anni ’70, si sono moltiplicati gli studi che, partendo da un diverso sapere, quello della biologia evoluzionistica e della genetica, hanno parimenti messo in questione la frattura fra scienze umane e naturali, percorrendo però, per così dire, la strada opposta. Si tratta in questo caso di riportare la cultura umana nell’ambito dell’evoluzione biologica, cioè nella «natura», per usare un etichetta tradizionale. Partendo stavolta da una concezione della specie umana come radicalmente appartenente al mondo naturale e alle sue leggi, si esplorano quegli aspetti per cui la peculiarità culturale che caratterizza l’Homo Sapiens può essere pensata nel quadro concettuale dell’evoluzione di un essere vivente. Gli studi sull’«Evoluzione culturale», intendendo il termine evoluzione in senso forte, hanno avuto molteplici approcci, dai più riduzionisti e ormai obsoleti come quelli della sociobiologia, alle teorie di Dawkins sulla memetica fino al recente progetto di Cavalli Sforza5. Nel lavoro di Baratay, lo stesso progetto di ritrovare un territorio comune fra entità che, inquanto viventi, condividono alcune caratteristiche ineludibili per la loro descrizione, parte invece proprio dal sapere storiografico, tradizionalmente riservato alla conoscenza di ciò che è esclusivo dell’essere umano, per riconoscere che uomini e animali hanno un vissuto, sono soggetti attivi e reattivi rispetto agli eventi che li riguardano e pertanto condividono una stessa modalità del divenire. Potremmo dire che mentre i teorici dell’Evoluzione Culturale «naturalizzano» la cultura per ritrovare in essa un tipo di divenire che sia compatibile con le leggi dell’adattamento, il progetto di storia animale «culturalizza» il divenire di alcuni animali e ritrova nel loro comportamento adattivo i segni di una soggettività attiva. Le differenze nella temporalità degli esseri viventi riguarderanno allora non la capacità di avere o meno una storia, ma le modalità di tale storicità, modalità che una «storia allargata» comincia ora faticosamente a rintracciare.

L’eccezione di Delort: «Les animaux ont une histoire»!

Un’importante eccezione nel panorama storiografico relativo ai rapporti umano-animale, prima che, con il nuovo millennio, nuove ricerche segnino un importante rinnovamento, è costituita dagli studi pionieristici di Robert Delort, e soprattutto da Les animaux ont une histoire6, testo di cui per molti aspetti Baratay riprende l’eredità. Si tratta di uno studio la cui prima parte espone un analisi dettagliata dei possibili documenti e metodi propri di una storia che non sia centrata sull’umano, una storia che sia invece «scienza dello spazio nel tempo». Delort vi propugna la creazione di una «zoologia storica» cioè, come sintetizza Baratay, «una storia delle specie prese come punto centrale di riferimento, di punto di vista ed analisi al fine di evocare le loro relazioni con gli uomini ma anche le loro evoluzioni biologiche, comportamentali, geografiche, così come le loro relazioni con le altre specie animali, mostrando le interazioni fra i diversi partecipanti ad un contesto (milieu), le capacità di iniziativa e di adattamento della specie studiata e le influenze sulle altre specie, fra cui l’essere umano» (p. 23).

Una definizione così ampia di ciò che si intende per storia può sorprendere; è utile pertanto seguire come Delort arrivi alla sua formulazione. Egli parte da ciò che gli appare come un fatto evidente: «gli animali selvatici, e a fortiori i domestici, non sono sempre stati gli stessi, hanno presentato questo o quell’aspetto, sono comparsi in una certa regione, in una certa epoca, e i loro rapporti con gli uomini sono molto cambiati durante i millenni» (p. 7). Tuttavia, nel momento in cui nasce quella che per noi è la zoologia scientifica, quando la Biologia relega nei musei le raccolte di Storia Naturale e tra le favole i suoi racconti, è tutta la dimensione storica degli animali che viene a cadere: la nuova scientificità è «fondata su ampie conoscenze nel campo delle scienze delle strutture e della materia (matematiche, chimica, fisica) e sulla rigorosa interpretazione di esperimenti controllati, così gli zoologi hanno bruscamente abbandonato, negletto, usato a fini tassonomici o genetici, o relegato a livello aneddotico la storia antica degli animali» (p. 9). Non ci si limiterà ad espungere tutta quella serie di racconti, di miti, di modi d’uso relativi agli animali che costituivano sin dall’antichità uno dei contenuti della Storia degli animali, ma qualsiasi dimensione temporale; l’unica storia che li riguarda sarà allora quella delle mentalità, dell’allevamento e della domesticazione, non una storia degli animali in sé. Delort da un’interpretazione dettagliata del processo di domesticazione che non è possibile analizzare in questo articolo. È importante però accennare almeno al modo fondamentale con cui essa è impostata : «non ci dilungheremo sul passaggio dalla raccolta e caccia alla produzione e allevamento, che si riferisce in egual misura all’agricoltura e all’insieme delle strutture economiche e sociali delle civiltà umane, ma ci concentreremo sulle cause del singolare spostamento di interesse dall’animale morto all’animale vivo, e soprattutto alla sua produzione principale: la sua progenie» (pp. 150-151). Dunque, se vogliamo ricostruire una storia degli animali in sé, la domesticazione non può essere concettualizzata partendo dal punto di vista esclusivamente umano che vi vede un aspetto del controllo delle risorse; le «cause» di essa riguardano certo un modo di strutturarsi delle società umane, ma nelle condizioni rese possibili da un essere ben reale e non puramente passivo né analogo a qualsiasi altro elemento ambientale: gli animali, e non l’animale, dato che le caratteristiche di ogni specie, ma anche di ogni particolare gruppo e financo individuo animale hanno dato luogo a storie diverse. Altrimenti detto: è un rapporto diversificato con altri soggetti agenti che costituisce ciò che cataloghiamo genericamente, per una nostra distorsione prospettica, come addomesticamento; un concetto che dal punto di vista animale significa molte cose differenti, al di là dello sfruttamento, che certo è il nocciolo della domesticazione e probabilmente la sua origine, ma il cui significato dal punto di vista umano non ne coglie forse tutte le caratteristiche. È aperta così, con la constatazione di una significazione per l’animale del rapporto con l’essere umano e della domesticazione, la possibilità di una specifica storia animale, che bisogna cercare di decifrare nelle sue peculiarità.

Modi del divenire

Continuiamo a cercare di tracciare i lineamenti di questa storicità allargata, partendo da una strana omissione che si sarà notata nella ricostruzione che Delort fa del modo di pensare gli animali.

Evidentemente il divenire degli animali nel tempo non è mai stato completamente eliminato dal loro studio. A parte il dibattito fra fissisti e sostenitori di una qualche forma di cambiamento delle specie animali che caratterizza la Storia Naturale, è la teoria evoluzionista di Darwin che viene solitamente indicata come quel sapere che si occupa della particolare «storicità» degli animali. Delort però sorprendentemente si limita a parlare dell’evoluzionismo solo per quanto riguarda la creazione degli animali, ed anche in questo caso mostrando di non dare molto credito alla sua scientificità7. C’è forse in questo una certa influenza della tradizione francese, che ha a lungo privilegiato le interpretazioni neo-lamarkiane; ma è soprattutto l’accentuazione dell’aspetto attivo, propositivo dell’organismo rispetto all’ambiente che interessa Delort ; un aspetto cui la centralità della selezione naturale, in particolare nella variante neo-darwiniana dell’evoluzionismo ancora dominante nel momento in cui Delort scriveva, sembrava probabilmente concedere poco. È infatti la «dinamica interna, spontanea, di numerosi animali», (p. 102), la cui capacità di risposta all’ambiente è paragonabile a quella umana, che permette per alcuni animali almeno, di parlare in senso proprio di storia; questo aspetto di propositività, di agire spontaneo, differenzia tali animali da quelle specie il cui divenire è costituito in realtà dal solo mutamento ambientale, che esse subiscono passivamente, restando uguali, o estinguendosi, ma sostanzialmente senza instaurare un vero scambio col mondo che le circonda.

Parallelamente a questa fondamentale incomprensione del darwinismo, troviamo un uso apparentemente incontrollato dei termini «storia», «evoluzione», «divenire», che compaiono come sinonimi. A questo proposito, le riflessioni di Baratay sulla storia animale rivelano la consapevolezza di una problematica relativa ai rapporti con l’evoluzionismo che non può più essere trascurata: egli riprende l’esigenza per cui lo storico «deve dare una consistenza, uno spessore ed una varietà a questa dimensione temporale troppo spesso schiacciata fra l’apparire degli animali selvaggi e la loro situazione attuale, fra la domesticazione neolitica degli animali e la manipolazione contemporanea, come se nulla fosse successo nel frattempo»(p. 387). Ma in questa restituzione della storia animale bisogna differenziare tre «livelli» di temporalità: quella di lunga durata, che appartiene alle specie ed è modellata dai meccanismi evolutivi, campo di studi rispetto a cui il contributo degli storici è ancora da definire; quella sulla scala dei decenni e dei secoli che riguarda i comportamenti sociali ed i gruppi, sia inter che infraspecifici, che costituiscono il campo di elezione del lavoro storiografico; ed infine il livello propriamente biografico, a misura della vita di un individuo8. Nella zoologia storica prefigurata da Delort l’apparentamento di storia ed evoluzione deriva dal progetto di reperire i differenti modi in cui i vari animali hanno risposto alle modificazioni del milieu, della «componente spaziale», i cui fondamentali eventi sono stati la fine delle glaciazioni ed il peso crescente dell’uomo a partire dal neolitico. Nella «storia allargata» di Baratay, abbiamo certo «una storia che travalica l’essere umano per occuparsi delle evoluzioni dei viventi e della natura», ma, e la limitazione è importante, «almeno di quelle su cui egli influisce più o meno con il suo intervento, o quelle per cui esistono dei documenti storici di diverso tipo, che permettano allo storico di esercitare il suo mestiere e usare le sue competenze» (p. 49).

Saper leggere le fonti

Questo richiamo alla specificità del mestiere di storico ed ai suoi strumenti affronta un altro problema relativo alle condizioni di possibilità di una «storia allargata». Come molte discipline scientifiche, la storia non si basa su dati sperimentali e nemmeno su osservazioni dirette. I materiali su cui lavora sono tradizionalmente documenti scritti, ma anche immagini, monumenti e altri reperti. Baratay elenca diversi tipi di documenti utili per tracciare una storia degli animali: le testimonianze dirette di chi ha vissuto a contatto con gli animali: i soldati, i minatori, ma anche le proteste delle associazioni protezioniste e gli studi degli agronomi; i documenti tecnici, come i testi veterinari, i trattati zootecnici, e più recentemente i lavori etologici e psicologici; infine i racconti letterari. È chiaro che tali testimonianze sono parziali, incomplete e spesso francamente artefatte; ma l’analisi critica, il controllo incrociato, e la contestualizzazione di tali materiali rientrano nel lavoro normale dello storico. Più rilevante è invece l’obiezione di fondo che sembra colpire la plausibilità stessa di tali fonti: si tratta evidentemente di testimonianze che usano un sistema di comuncazione che è quello peculiarmente umano del linguaggio o della scrittura; come poter raggiungere allora la realtà di un altro vivente che non ha gli stessi mezzi di espressione? Anche ammettendo che gli esseri umani vedano la realtà animale, non la interpreteranno comunque con i loro propri codici, i quali potrebbero fraintendere del tutto il loro oggetto? Ciò che questi documenti ci rivelerebbero sarebbe allora solo ciò che vedono e pensano coloro che li hanno scritti, ci informerebbero non sull’oggetto di cui si discute, ma solo sul discorso stesso e sul soggetto che lo tiene. Un tale modo di relativizzare la testimonianze è accentuato soprattutto in una delle tendenze dominante in molte scienze umane e in storiografia: le analisi culturali o Cultural Studies, il linguistic turn. Baratay torna più volte sulla critica a tale approccio ed in termini assai duri: se l’analisi decostruzionista dei testi è necessaria per il loro studio critico, fermarsi ad essa implica ridurre la storia ad un commento infinito su discorsi ed interpretazioni. La realtà di cui questi discorsi parlano diventa qualcosa di irragiungibile su cui è impossibile indagare.

Ora, nel caso della realtà animale in particolare, il relativismo finisce di fatto con il legittimare la chiusura antropocentrica: si parla sempre di se anche quando, con una narcisistica proiezione antropomorfica, si crede di parlare di un altro. Tuttavia, obietta Baratay, una tale critica alla capacità dello storico di raggiungere la realtà, colpisce evidentemente non solo la storia animale, ma tutti gli studi il cui oggetto è costituito da quei gruppi che non hanno prodotto discorsi propri (o lo hanno fatto con codici diversi dai nostri): i popoli così detti «primitivi» o comunque non occidentali, i vinti, gli anonimi; eppure esistono ricostruzioni storiche che sono state in grado di rivelare almeno alcuni aspetti della loro realtà, che hanno saputo adottare un altro punto di vista. Ma soprattutto la critica di Baratay a queste impostazioni parte dalla constatazione che, se il relativismo dei Cultural Studies potrebbe essere ammissibile per gli oggetti naturali, è sicuramente insufficiente per l’animale che «è un essere vivente che agisce, reagisce, “parla” producendo delle risposte concrete come le ferite, le malattie, i decessi, che l’umano può al limite minimizzare, ma non cancellare, di cui può solo prendere atto e che lo obbligano a reagire e ad adattarsi» (p. 55). Questa «realtà prima», (p. 339) questo «fatto iniziale» può essere più o meno visto ed interpretato, ma è qualcosa di evidentemente presente nei documenti su cui lo storico lavora. Se la negazione del vissuto animale è dominante, benchè in misura variabile a seconda delle epoche, del gruppo sociale o degli individui, l’attenzione a tale vissuto è massiccia a partire dalla fine del ‘700 e non tanto per un cambiamato della sensibilità umana, quanto per la diversa situazione degli animali, che hanno molteplici impieghi e ruoli.

Se si sanno leggere le fonti storiografiche, se i documenti sono presi sul serio e non ridotti ad aneddoti, una storia animale è dunque possibile. E se i documenti che conservano seppur lacunosamente questa storia sono stati così ignorati o svalutati è stato con tutta probabilità per ragioni pratiche, cui l’antropocentrismo ha fornito una legittimazione: è ormai «tempo di dissociare il discorso sullo studio degli animali dal discorso sulla dominazione degli animali…» (p. 62). Ma la capacità di leggere e decifrare i documenti richiede che non si definisca pregiudizialmente ciò di cui essi parlano, che non si neghino cioè agli animali tutta una serie di capacità, di azioni, di realzioni, declassando il loro racconto a pura ingenuità antropomorfica. Anzi, un antropomorfismo controllato, come è ormai sottolineato da più parti9, è il solo approccio che permette di avere uno sguardo «aperto e curioso» su alcuni fenomeni. L’empatia sarà dunque il metodo che può permettere rispetto alla realtà animale, di «vedere e raccogliere i fatti ad essi relativi nei documenti, o almeno di intuirli, o supporli» (p. 61)10. Un modo di rapportarsi agli animali che del resto è sempre stato presente nella vita quotidiana degli uomini, senza del quale nessun addomesticamento sarebbe stato possibile.

Soggettività e vissuto: l’apporto della fenomenologia

La «storia allargata» pertanto è storia in senso proprio, non solo perché è costruita con i materiali classici del lavoro storiografico, ma perché è la ricostruzione dei cambiamenti di un soggetto attivo. «Là dove c’è evoluzione di un protagonista (acteur), c’è storia» (p. 67), afferma Baratay. Se la domesticazione fosse un processo unidirezionale, un’elaborazione di strumenti finalizzata al loro uso, l’unica vera storicità sarebbe quella di chi li ha prodotti ed utilizzati; ma la domesticazione è una relazione fra soggetti: «la si potrebbe definire acculturazione, cioè non semplice imposizione da parte dell’umano ma anche recezione da parte dell’animale, dialogo fra i due, influenza di ritorno dell’animale sull’umano» (id.). Questo riferimento all’acculturazione, come l’avvicinamento della storia degli animali a quella di altri gruppi umani subordinati, implica la possibilita di una storia delle «culture» animali, le quali non sarebbero dunque relative a delle «società senza storia»: una tale apparenza non è che l’effetto di una pratica di dominio. Una «storia etologica», tale cioè che tenga conto di ciò che ormai sappiamo sugli animali non-umani, si intreccia così necessariamente con una «etologia storica» che recuperi l’aspetto del mutamento culturale nella conoscenza degli animali11.

Una storiografia senza pregiudizi ci rivela dunque l’esistenza di comunità ibride, in cui è presente la percezione del vissuto altrui ed una certa capacità di influsso reciproco. Ma per parlare in senso proprio di «comunità», di relazioni all’interno di una storia condivisa, anche se non necessariamente unitaria12, bisognerà usare un concetto di «soggetto» non ricalcato tautologicamente su alcune caratteristiche esclusive della specie umana, come l’autocoscienza o il pensiero linguistico. Il metodo dell’empatia, uno sguardo più aperto (ma anche, come si è detto, più scientificamente informato) sul mondo e sui documenti scritti dagli esseri umani ci rivela che gli animali hanno un vissuto e che questo è un «fatto iniziale» (p. 337) da sempre presente agli umani. L’uso di concetti chiave della fenomenologia è palese, e Baratay cita espressamente Husserl e Merleau-Ponty come quei – pochi – filosofi che hanno rivolto un tale sguardo agli animali. Il vissuto si carica allora delle caratteristiche di attività, autodirezione e spontaneità che caratterizzano tradizionalmente il soggetto, mentre correlativamente tali caratteristiche perdono la loro connotazione coscienziale e riflessiva per assumere un aspetto più percettivo e relazionale. Il nodo che lega nel pensiero fenomenologico il vissuto alla soggettività è uno dei suoi punti centrali di inquietudine, in particolare per la temuta deriva «naturalistica» nell’interpretazione del soggetto, il quale non sarebbe allora che un oggetto nel mondo, passibile di conoscenza empirica; cosa cui la fenomenologia classica si è sempre strenuamente opposta, intendendo invece conservare alla soggettività la sua caratteristica di trascendentalità costitutiva. Sembra tuttavia che proprio questa sia la direzione che molte delle ricerche che si avvalgono del metodo fenomenologico tendono a prendere: ciò che questo sguardo trova sono soggettività immerse nel mondo, che modulano delle temporalità costituite al di fuori di loro. Sono ricerche promettenti, il cui metodo ( e d’altronde ogni impresa fenomenologica non ha forse sempre rivendicaro di non essere altro che uno sguardo più limpido per arrivare alle «cose stesse»?) le porta a ritrovare una soggettività che, se non è costituente, ha però delle caratteristiche originali, che si tratta di indagare liberandosi dai limiti dell’antropocentrismo.


Note

1. Per una ricostruzione del concetto di cultura nella disciplina antropologica si può vedere Sabrina Tonutti, «La cultura come dispositivo di differenziazione di uomini e animali» in Manuale di Zooantropologia, Meltemi, Roma 2007, pp. 23-56.

2. Marc Bloch, Apologie pour l’histoire ou métier d’historien, Colin, Paris 1949 (tr. it. Apologia della storia o Mestiere di storico, Einaudi, Torino 1998.

3. V. Yves Bonnardel, «Qualche riflessione in merito alla sensibilità che alcuni attribuiscono alle piante», Cahiers Antispécistes, 5/dicembre 1992. Per uno studio fenomenologico della differenza tra la pianta e l’animale v. anche Florence Burgat, Liberté et inquiétude de la vie animale, Kimé, Paris 2006, capitolo 2 «Le calme de la vie végétale».

4. Un’analisi precisa dei vari dualismi che informano il pensiero occidentale nella loro diversità di contenuto e di funzione si trova in Jean-Marie Schaeffer, La fin de l’exception humaine, Gallimard, Paris 2007.

5. Luigi Luca Cavalli Sforza, L’evoluzione della cultura, Codice Edizioni, 2004 – seconda edizione ampliata 2010. Una panoramica dei vari approcci allo studio in termini evoluzionistici delle capacità culturali umane si può vedere Edouard Machery, «Culture et singularité humaine», in J. Dubessy, G. Lecointre, M. Silberstein (eds.), Les Matérialismes et leurs contradicteurs, Syllepse, Paris 2004 pp. 341-362.

6. Robert Delort, Les animaux ont une histoire, Éditions du Seuil, Paris 1984.

7. Ivi. pp. 102-107.

8. Baratay riprende qui la periodizzazione di Michael J. Tomasello, The Cultural Origins of Human Cognition, Harvard University Press, Harvard 1999.

9. Vedi, ad esempio, Françoise Armengaud, «L’anthropomorphisme: vraie question ou faux débat», in F. Burgat, R. Dantzer (eds.), Les animaux d’élevage ont-ils droit au bien-être?, Éditions de l’INRA, Paris 2001; ora in F. Armengaud, Réflexions sur la condition faite aux animaux, Kimé, Paris 2011.

10. Kohler Florent, «Sociabilités animales», Études rurales, 2012/1, n°189, p. 15: «Une part importante des sciences humaines et sociales nous autorise à envisager des approches qui ne seraient pas fondées sur des systèmes linguistiques mais privilégieraient des liens où la parole ne serait considérée que comme un moyen et non comme une fin. Pour ce faire, il nous faut admettre qu’une partie des données recueillies par un chercheur repose sur l’empathie qu’il éprouve pour son objet et sur ses capacités à appréhender des situations où la parole ne joue aucun rôle» (Introduction).

11. Eric Baratay, «Pour une histoire éthologique et une éthologie historique», Études rurales, 2012/1, n°189, pp. 91-106.

12. A proposito della creazione delle mucche specializzate nella produzione di latte, selezionate progressivamente a partire dalla fine del ’700, e delle diverse modalità di gestione del loro allevamento, Baratay sottolinea che la nostra cronologia può non essere significativa per gli animali: dal loro punto di vista «è meglio parlare di stato della produzione e di vissuto senza partire da distinzioni di date, di luoghi, di sociologia, di economia, se queste non hanno influenza su di essi» (p. 137).

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