Dal care al dialogo. Il femminismo e il trattamento degli animali

Di Josephine Donovan.

Traduzione dall’inglese di Michela Pezzarini.

Questo articolo è tratto dal volume collettivo The Feminist Care Tradition in Animal Ethics, a Reader, Columbia University Press, 2007. Una versione molto più lunga e leggermente diversa era apparsa con il titolo «Feminism and the Treatment of Animals: From Care to Dialogue» in Signs: Journal of Women in Culture and Society, 2006, vol.31, n.2.

Nota della traduttrice: ove possibile si è scelto di non tradurre il termine inglese care, che ha un campo semantico più ampio dell’italiano cura.


Dagli anni Ottanta le femministe hanno iniziato a introdurre la teoria del care nel dibattito filosofico su come gli umani debbano trattare gli animali non umani. La teoria del care, un filone importante della teoria femminista contemporanea, è stata originariamente articolata da Carol Gilligan e in seguito elaborata, perfezionata e ampiamente criticata fin dalla sua prima formulazione nei tardi anni Settanta. Da quando le autrici e gli autori presenti nella prima parte di questo volume [The Feminist Care Tradition in Animal Ethics, a Reader] hanno applicato la teoria del care alla questione animale nei primi anni Novanta, essa si è affermata come uno dei principali filoni teorici dell’etica animale.

Questo articolo vuole tentare di affinare e rafforzare ulteriormente la teoria femminista del care in etica animale. Spero di riposizionare la discussione per porre in evidenza la natura dialogica della teoria del care: non si tratta tanto, come dimostrerò, del prendersi cura [care for] degli animali come le madri (umane e non umane) fanno nei confronti dei propri piccoli, ma piuttosto di ascoltarli, di offrire loro la nostra attenzione emotiva, prendendo a cuore [care about] ciò che ci dicono. Come sottolineo nella conclusione del mio articolo «Animal Rights and Feminist Theory»: «Non si devono uccidere, mangiare, torturare e sfruttare gli animali perché loro non vogliono ciò e noi lo sappiamo». In altre parole in questo articolo propongo di spostare la fonte epistemologica della teorizzazione sugli animali negli animali stessi. Non si potrebbe, mi domando, estendere la standpoint theory femminista agli animali, includendo in questo modo il loro punto di vista nelle nostre deliberazioni etiche?

La standpoint theory per gli animali

Poiché offre una prospettiva politica teoricamente più sofisticata di quella del care, la standpoint theory – una corrente significativa nella teoria femminista contemporanea – può rivelarsi un utile apporto alla teoria del care che si occupa del trattamento etico degli animali1. Specialmente nell’articolazione originaria di György Lukács, la standpoint theory sembrerebbe particolarmente adatta per l’approccio dialogico che vado proponendo. Il filosofo marxista Lukács sviluppò questa idea nell’opera Storia e coscienza di classe ([1923] 1978), in cui teorizzò che il proletariato manifesta un’epistemologia particolare e privilegiata a causa della propria mercificazione o reificazione nel processo di produzione capitalista. Quando un soggetto è trattato come un oggetto, afferma Lukács, l’esperienza evoca necessariamente una coscienza critica nata dalla paradossale consapevolezza di non essere una cosa. Nell’automatizzazione della produzione capitalista, nota Lukàcs, il lavoratore «è perciò costretto a subire come oggetto del processo la propria mercificazione, la propria riduzione a pura quantità. Ma proprio per questo egli viene spinto al di là dell’immediatezza di questa condizione» (p. 219). Sotto la «crosta quantificante», comunque, si trova un «nucleo qualitativo e vivente» (p. 223), da cui nasce una coscienza critica e sovversiva. Lukàcs sviluppa così il concetto: «la mercificazione dell’operatività separata dalla personalità complessiva dell’uomo arriva a trasformarsi in coscienza di classe rivoluzionaria soltanto nel proletariato» (p. 226).

E ancora: «A questo oggettivo occultamento della forma di merce corrisponde, dal punto di vista soggettivo, il fatto che il processo di reificazione, la mercificazione dell’operaio, mentre da un lato annienta l’operaio stesso [...] storpiando ed atrofizzando il suo ‘spirito’, dall’altro non trasforma in merce la sua stessa essenza spirituale-umana» (pp. 226-227).

La standpoint theory femminista – secondo Nancy Hartsock (1983) – ha generalmente collocato l’origine del risveglio della coscienza critica di un gruppo oppresso non tanto nella reificazione quanto nell’esperienza corporea e nella pratica (o nel ricordo) del lavoro artigianale non industriale di valore d’uso2; comunque, al fine di elaborare un approccio femminista alla questione animale, l’enfasi di Lukàcs sulla reificazione in quanto elemento primario costitutivo del punto di vista critico sembrerebbe più utile.

Nell’applicazione della teoria agli animali è oltremodo chiaro che essi nel processo di produzione vengono letteralmente ridotti a numeri e trasformati in merce – ancor più di quanto non avvenga ai proletari, i cui corpi almeno non sono trasformati dal processo produttivo, letteralmente, in morti oggetti da consumare – anche se accade che siano trattati come strumenti meccanici. Tuttavia il punto che appare immediatamente problematico nell’applicazione della standpoint theory agli animali è la questione sul come il loro punto di vista soggettivo debba essere articolato. Poiché è ovvio che, a differenza dei lavoratori umani, gli animali sono incapaci di condividere tra di loro le proprie opinioni critiche, come sono incapaci di organizzare la resistenza alla propria reificazione e uccisione nei mattatoi. D’altra parte il fatto che raramente i lavoratori hanno espresso un punto di vista proletario di propria iniziativa o si sono spontaneamente ribellati in massa al trattamento subito (un eterno problema del pensiero rivoluzionario), suggerisce che le differenze tra i due casi non sono rilevanti come potrebbe risultare a prima vista. Spesso, nella pratica, i teorici marxisti sono ricorsi all’idea di un’avanguardia intellettuale che guidi il proletariato e lo educhi a riconoscere e combattere le ingiustizie che gli sono inflitte (l’esempio più famoso è la concezione leninista del partito di avanguardia ). E appunto una questione centrale della standpoint theory femminista è quella del rapporto tra i teorici e le teoriche che articolano il punto di vista delle donne e le donne per conto delle quali tale punto di vista viene articolato (Hartsock 1998, pp. 234-38).

Nel caso degli animali è chiaro che c’è bisogno che i loro difensori umani ne articolino il punto di vista – colto, come qui sosteniamo, nel dialogo con essi – a testimoniare che non vogliono essere ammazzati, né sfruttati o maltrattati. C’è inoltre bisogno di difensori umani per proteggersi e organizzarsi contro le pratiche che reificano e trasformano in merce i soggetti animali.

Un’etica dialogica del care per il trattamento degli animali

«Se un leone potesse parlare, non lo capiremmo» è un famoso aforisma di Ludwig Wittgenstein ([1953], 2009 p. 292). La teoria che qui espongo è appunto che i leoni parlano eccome, e che non è impossibile capire gran parte di quello che dicono. Diversi studiosi hanno già sottolineato che gli umani devono imparare a interpretare gli idiomi del mondo naturale. Jonathan Bate ci ha proposto di imparare la sintassi della terra [land], piuttosto che interpretarla attraverso la nostra «prigione linguistica», per sviluppare un’adeguata comprensione dell’ambiente (Bate 1998, p.65, nella citazione di Simons 2002, p.77).

Similmente Patrick Murphy ha auspicato la nascita di una «dialogica ecofemminista» in cui gli umani apprendano a leggere i dialetti degli animali. Murphy ha sostenuto che è possibile riconoscere gli altri non umani come soggetti parlanti e non solamente oggetti del nostro discorso» (1991, p. 50)3. Precedentemente il fenomenologo Max Scheler aveva espresso un pensiero simile rispetto alla necessità di apprendere la «grammatica universale» dell’espressione dei viventi ([1923] 2010). Più di un secolo fa la scrittrice americana Sarah Orne Jewett rifletteva con queste parole proprio sulla possibilità di imparare la lingua dei non umani:

Chi sarà il linguista che imparerà la prima parola del monito di un vecchio corvo che avverte la compagna del pericolo […]? Per quanto tempo ci toccherà andare a scuola quando le persone dovranno imparare a parlare con gli alberi e gli uccelli e tutti gli animali nella loro lingua! […] Non è necessario soggiogarli perché ci diventino familiari e ci rispondano, possiamo incontrarli sul loro stesso terreno. (1881 pp. 4-5) [A riprova che una comprensione del vissuto animale è già possibile, rimando al capitolo intitolato «L’enigma del corvo» in Quando il lupo vivrà con l’agnello (V. Despret 2004) sul linguaggio e sulle abitudini di alcune comunità di corvi studiate da B. Heinrich e descritte in Ravens in Winter (1991), n.d.t.]

Sicuramente c’è ancora chi solleva l’interrogativo epistemologico su come essere certi di sapere che cosa pensi o provi un animale. Direi che la risposta è che nell’interpretazione di un animale mettiamo in atto gli stessi processi mentali ed emotivi che impieghiamo per interpretare un umano4. Il linguaggio del corpo, lo sguardo, la mimica facciale, il tono della voce… sono tutti segni importanti. È anche utile conoscere gli usi e la cultura della specie; inoltre, come avviene tra umani, la frequentazione di un individuo permette di capirne bisogni e preferenze che sono del tutto personali. Prestando attenzione, studiando ciò che viene significato, si giunge a conoscere e ad avere a cuore l’essere significante5. In questo modo i referenti assenti della famosa definizione di Carol Adams (1990) sono reintegrati nel discorso e alle loro storie è permesso prendere parte alla narrazione, aprendo così, in breve, la possibilità di dialogo con loro.

La premessa qui sottesa è che una delle principali modalità attraverso cui avviene la conoscenza è quella dell’analogia basata sull’omologia. Se quel cane abbaia, uggiola, cammina avanti e indietro leccandosi una ferita aperta – e poiché so che con una ferita aperta mi comporterei (e mi sentirei) anch’io in modo simile, lamentandomi e agitandomi ansiosamente per il dolore – concludo che l’animale sta provando un dolore simile al mio e sta così esprimendo tutto il suo disagio. In breve, si immagina quello che l’animale sta provando sulla base di ciò che si proverebbe in una situazione simile6. Aggiungo che la manifestazione ripetuta di reazioni simili in contesti simili conduce per induzione alla conclusione generale che i cani quando sono feriti provano dolore come noi, insomma cioè che provano dolore – e che questo non piace neppure a loro. Quindi chiedersi se gli umani possano capire gli animali è, a mio giudizio, una domanda oziosa: che possano farlo è ampiamente dimostrato dal fatto che ci sono ripetutamente riusciti, come sostiene Midgley (1983, pp.113, 115, 133, 142).

Va da sé che, come accade tra umani, c’è sempre il rischio di interpretare erroneamente la comunicazione dell’interlocutore animale e di intrepretare come omologo un comportamento che omologo non è. Sappiamo bene che tutta la comunicazione è imperfetta, e restano molti i misteri nel comportamento animale (così come in quello umano). Le teoriche e i teorici femministi dell’etica del care hanno esplorato alcune delle difficoltà inerenti al tentativo di valutare i bisogni di un umano che non comunica e/o il rischio di imporgli quelle che sono le nostre opinioni o bisogni. Ma come riassume Alison Jaggar, le teoriche e i teorici del care sostengono che generalmente «tali rischi possono essere evitati» – o almeno ridotti al minimo, aggiungerei io – «migliorando le pratiche della sollecitudione, intesa come una disciplina i cui prerequisiti includono atteggiamenti e capacità quali l’apertura, la ricettività, l’empatia, la sensibilità e l’immaginazione» (1995, p.190).

Capire che un animale prova dolore o disagio – anche entrando in empatia o in simpatia con esso o essa – non garantisce, d’altra parte, che l’umano agirà eticamente nei suoi confronti. L’originaria reazione emotiva ed empatica dunque deve essere arricchita da una prospettiva etico-politica (raggiunta con la preparazione e l’educazione) che permetta all’umano di analizzare la situazione con occhio critico in modo da stabilire chi è responsabile della sofferenza dell’animale e quale sia il modo migliore di alleviarla. Nel suo recente libro Davanti al dolore degli altri, Susan Sontag ci mette in guardia: le persone di fronte ad immagini rappresentanti il dolore di altri esseri umani (Sontag non prende in considerazione immagini di animali) non hanno automaticamente una reazione morale, e se l’autrice definisce «in termini morali […] un mostro» la persona che non ha una reazione compassionevole per difetto «di immaginazione e di empatia» (p. 11), sostiene anche che varie ideologie spesso interferiscono con la risposta etica. Troppo spesso, dichiara Sontag, l’empatia implica una posizione privilegiata e un senso di superiorità privi di riflessione personale su come si stia contribuendo alla sofferenza di cui ci si rammarica. Sontag auspica quindi che un’elevata consapevolezza politica «umanitaria» accompagni la risposta simpatetica, permettendole di sfociare in un’azione che sia veramente etica. Le foto di atrocità «non possono essere più di un invito a prestare attenzione, a riflettere» (pp. 97, 109) su chi è responsabile di quella sofferenza – e a porsi altre domande come questa.

Si è fatto notare nell’introduzione che l’etica femminista del care include una prospettiva politica. Come hanno rilevato diverse autrici e autori che contribuiscono a questo volume [The Feminist care Tradition in Animal Ethics, a Reader], nel condurre le persone a vedere il male e a prendersi a cuore [to care about] la sofferenza, si tratta in larga misura di fare piazza pulita delle razionalizzazioni ideologiche che legittimano sfruttamento e crudeltà sugli animali. E riconoscere il grossolano abuso dell’eufemismo ai fini di camuffare tale atteggiamento (come ampiamente documentato nel libro di Joan Dunayer Animal Equality, 2001) è un importante passo in questa direzione.

Non si tratta però soltanto di integrare il care con una prospettiva politica, poiché l’esperienza del care [come cura e interesse empatico, n.d.t.] può condurre da sé all’analisi politica – come rileva Joan Tronto (1993) (2006) nel suo appello per un’«etica politica della cura» (p.170): «La cura diviene uno strumento per l’analisi politica critica, quando usiamo questo concetto per svelare le relazioni di potere» (p.191).

In altre parole, nonstante Tronto non si occupi della questione animale, quando si prova empatia per un animale sofferente, ci si chiederà spontaneamente perché questo animale stia soffrendo. È possibile che la risposta conduca ad un’analisi politica delle cause del suo disagio. Dunque l’educazione al pensiero critico, sottolineano queste teoriche e teorici, è tassativa se si vuole che un’etica del care funzioni.

C’è anche bisogno di educare alle pratiche di cura e all’empatia, come proposto da Nel Noddings (1984, p.153)7. Anni fa a questo riguardo Gregory Bateson e Mary Catherine Bateson asserivano che «l’empatia è una disciplina» e quindi può essere insegnata (1987, p. 195). In molte religioni come disciplina spirituale, sottolineano, ai fini della comprensione empatica si fanno degli esercizi basati sull’immaginazione: tale pratica potrebbe essere debitamente introdotta in istituzioni laiche come le scuole (soprattutto quelle superiori). Certamente una larga parte dello scopo di tale disciplina non dovrà essere la semplice identificazione emotiva ma anche la comprensione intellettiva, l’apprendimento dell’ascolto, dell’interessamento serio e profondo a ciò che gli animali ci dicono, della rispettosa e sollecita interpretazione del loro linguaggio. L’etologia, disciplina in pieno sviluppo, ci sta fornendo nuove e importanti informazioni che ci supporteranno in tale studio.

Concludendo dunque, un’etica femminista del care per gli animali deve essere politica nella prospettiva e dialogica nel metodo. Rifiutando l’imperativo imperialista del metodo scientifico, in cui «la voce del soggetto scientifico […] parla con un’autorità generale e astratta [e] gli oggetti interrogati ‘si esprimono’ solo in risposta alle domande poste dalla persona di scienza» (così Sandra Harding ha caratterizzato l’incontro nel laboratorio di ricerca, 1986, p.124), gli umani devono smettere di imporre la loro voce su quella degli animali.

La nostra relazione con gli animali non deve più essere quella della «conquista di un oggetto estraneo» – come sostiene Rosemary Radford Ruether – bensì «la conversazione tra due soggetti». Dobbiamo riconoscere «che l’’altro’ ha una sua propria ‘natura’ che dev’essere rispettata e con cui si deve entrare in conversazione» (1975, p. 195-96). Su queste basi e riflettendo sul contesto politico, si può fondare un’etica dialogica per il trattamento degli animali8.


Note

1. Carol Adams ha avviato questa linea di pensiero nel suo articolo del 1997 «’Mad Cow’ Disease and the Animal Industrial Complex» (si vedano soprattutto pag. 29, 41-42 e 44). Adams elabora una lettura leggermente diversa dalla mia, descrivendo le mucche come «lavoratrici alienate» il cui punto di vista è stato ignorato. Si veda anche l’articolo di Deborah Slicer (1998). Se la teoria del care e la standpoint theory derivano da tradizioni filosofiche diverse, esse trovano un punto di contatto nel riguardo per le sofferenze altrui. E nella formulazione originale della standpoint theory femminista, Nancy Hartstock (1983) ha identificato come standpoint femminista l’ontologia relazionale femminile che è alla base della teoria del care. Ciò detto, la differenza tra la teoria del care e la standpoint theory femminista risiede nel fatto che la seconda è più una teoria politica che intende individuare le cause delle sofferenze e affrontarle ed eliminarle politicamente; la teoria del care è piuttosto una teoria morale finalizzata ad alleviare le sofferenze nell’immediato. Entrambi gli approcci sono necessari, come sostengo di seguito.

Mentre i poststrutturalisti e i postmoderni hanno criticato la standpoint theory femminista per il suo presunto essenzialismo e per l’attribuzione di una percezione privilegiata agli oppressi (proletariato), rimane tuttavia ovvio che certi gruppi sono trattati come se fossero detentori di una identità essenziale che permette di abusare di loro.

Il che è perfettamente formulato nel titolo dell’articolo di Laura Lee Down sull’argomento: «If ‘Woman’ is just an Empty Category , Then Why Am I Afraid to Walk Alone at Night?» (2005) [Se 'donna' è solo una vuota categoria, allora perché ho paura di camminare per strada da sola di notte? n.d.t.] . Si veda anche Godfrey (2005). Come le donne gli animali, nel loro essere determinati in quanto oggetti, sono costretti entro una identità essenziale, alla quale resistono in quanto soggetti. Tale resistenza critica, di cui gli umani prendono conoscenza comunicando con loro, è il punto di vista degli animali.

2. Fa eccezione Catherine McKinnon: in «Sexuality, Pornography, and Method» ([1990] 1995) propone di considerare l’«oggettivazione sessuale» come la base per l’emergenza del punto di vista delle donne (135). Per uno sguardo d’insieme delle standpoint theories femministe, si veda Harding (1968, p.141-51).

3. Negli ultimi anni un certo numero di altri teorici letterari hanno iniziato ad esplorare la possibilità di un’analisi dialogica del punto di vista animale. Si veda Josephine Donovan, «Aestheticizing Animal Cruelty», in College Literature 38, n. 4, 2011, pp. 201-217.

4. Questa affermazione va a contraddire in una certa misura Thomas Nagel che nel suo «Cosa si prova ad essere un pipistrello» ([1974] 2013), sostiene che a noi umani è preclusa la «fenomenologia del pipistrello»; cioè che possiamo solo immaginare che cosa potrebbe essere per noi essere pipistrelli ma non che cosa significhi essere pipistrelli per i pipistrelli. Fino ad certo punto Nagel ha ragione, naturalmente il fatto che siamo limitati dal nostro apparato mentale è un truismo epistemologico. Tuttavia ritengo che sia possibile fare uno sforzo maggiore nella decifrazione della comunicazione animale e che pur non potendo mai comprendere appieno come ci si senta ad essere un pipistrello, possiamo comprendere alcuni dati fondamentali rilevanti della sua esperienza sufficienti alla formulazione di una risposta etica. Per una visione alternativa a quella di Nagel si faccia riferimento a «Understanding Dogs» di Kenneth Shapiro (1989), in cui si sostiene che noi riconosciamo la validità della comunicazione «cinestetica» interspecifica.

Nonostante Val Plumwood proponga un’«etica dialogica interspecifica» nel suo recente Environmental Culture (2002, p.167-95), che parrebbe essere coerente con ciò che propongo in questo scritto, ella sostiene – incorentemente – che questa etica considera accettabile uccidere e mangiare animali non umani: «[questi] si possono considerare allo stesso tempo come alterità comunicanti e come cibo» (p.157). Ciò contraddirrebbe lo scopo di un’etica dialogica, che è quello di rispondere eticamente a ciò che «l’alterità comunicante» ci dice, invariabilmente appunto che non vuole essere uccisa e mangiata.

5. Questa è una mia modifica della terminologia strutturalista classica.

6. In merito alla conoscenza degli stati d’animo altrui, nel testo classico che è «Le altre menti» ([1946] 1993), J. L. Austin sottolinea che un prerequisto primario di tale comunicazione è il fatto che si sia già provata quella sensazione in prima persona (p.102). Austin tuttavia come Nagel nega la possibilità di conoscere «cosa si provi ad essere un gatto o uno scarafaggio» (p.102, nota).

7. Noddings (1991) comunque ha espresso delle riserve sull’applicazione della teoria del care agli animali. Si veda anche la mia critica alla posizione di Noddings (Donovan, 1991).

8. Altre teoriche e teorici che hanno sostenuto ed esplorato la teoria etica dialogica sono Martin Buber, Simone Weil, Iris Murdoch e Michail Bachtin. Si troveranno ulteriori approfondimenti nel mio articolo «Attention to Suffering: Sympathy as a Basis for Ethical Treatment of Animals» (in The Feminist care Tradition in Animal Ethics, a Reader, capitolo 7).


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