Il peso della carne che sposta i confini morali

Di Rosa Traversa.


Il male come carneficina delle relazioni

Il presente articolo intende proporre una riflessione sulla formazione cultural-religiosa del «male» a partire dal mito del male puro e approfondendo via via le implicazioni di tale concetto alla luce di atrocità collettive (si veda ad esempio la Shoah oppure il genocidio in Rwanda) sorrette da un senso etico variamente ispirato: decenza pubblica, ossequio ad un ordine impartito, protezione di una comunità etnico-morale, deumanizzazione strumentale. In particolare, cercherò di affrontare in questo primo paragrafo il ruolo che i processi di esclusione morale esercitano sulla corporeità delle relazioni. Infatti, il mio interesse precipuo risiede nel considerare la presenza incarnata individuale, animale, quale agente di connessione e di strumentalizzazione all’interno di dinamiche di partecipazione o evitamento di massacri relazionali.

Il mito del «male puro» (Baumeister, 1997) rappresenta una concezione del male in senso assoluto che si compone di una serie di caratteristiche attribuibili alle figure del perpetratore e della vittima, quali: totale intenzionalità del danno, piacere nell’infliggere un danno, astoricità e naturalizzazione della carica dell’azione malvagia, straordinarietà dell’evento dannoso, percezione di incontrollabilità emotiva e forte presenza di tratti egotici nel perpetratore, vittime collocabili all’interno di un «outgroup» ben riconoscibile e identificabile rispetto al perpetratore. Una delle principali componenti di tale concezione del male risiede nel tracciare un rapporto dicotomico fra male e bene in cui quest’ultimo sia evidenziato come sinonimo di pace, stasi, ordine e stabilità. Da ciò deriva che le vittime del «male puro» vengano identificate in quanto vittime di conflittualità, caos e duttilità emotiva del perpetratore e – soprattutto – in quanto ignare e intrinsecamente virtuose. Il rapporto di disparità fra la vittima e il perpetratore, anche definito gap of magnitude (Baumeister, ibidem), consiste nella valutazione di uno stato negativo inflitto alla vittima non controbilanciato da quello del perpetratore (Darley, 1992, p. 201). Le variazioni nella percezione di tale divario contribuiscono alla definizione di «male» e tali attribuzioni risultano essere generalmente compiute dalle vittime mentre lo stesso interrogativo non viene posto dai perpetratori proprio in virtù del fatto che le proprie azioni dannose in molti casi non vengono nemmeno interpretate come malvagie o atroci (Baumeister e Campbell, 1999). Quest’ultima considerazione pone l’accento sul ruolo della presa di distanza e del codice morale nei processi di massacri di massa facendo emergere come questi ultimi non sarebbero stati realizzabili da perpetratori amorali. In questo senso, la relazione fra assunzione di una prospettiva morale e uccisioni di massa non è contraddittoria e risponde ad una precisa assegnazione di valore all’obbedienza e al compimento di specifici compiti e doveri. Come precisa Sereny (1995) rispetto a Stangl, un torturatore nazista, il prendere parte ad uccisioni all’interno di due campi di sterminio non implicava una mancanza di assunzione di responsabilità e una conseguente condanna morale per gli atti commessi; e anche nel momento in cui fu accusato pubblicamente la sua integrità morale gli parve messa in discussione rispetto a «ciò che aveva fatto, e non a ciò che era» (ibidem, p. 150, traduzione mia). L’etica della decenza a livello pubblico (Welzer, 2004), dunque, richiedeva una percezione di diffusione di responsabilità e un disagio nell’identificazione individuale di un misfatto. Il contesto di uno sterminio di massa veniva così rigorosamente distinto da implicazioni personali tanto che «solo un mostro avrebbe potuto prendere parte a tali azioni, ammettere le proprie colpe e poi … essere in grado di continuare a vivere» (Sereny, 1995, p. 41, traduzione mia). È interessante notare in quest’ultimo passaggio la sottolineatura dell’impossibilità di considerare la responsabilità personale come nozione in grado di individuare il libero arbitrio quale variabile interveniente nel compiere un atto di massacro. Se, infatti, il contesto della cultura e della politica nazista fungeva da motivazione all’azione e da designazione degli Ebrei quali oggetto dell’azione stessa, «il libero arbitrio mancava» (ibidem, p. 189). Il libero arbitrio è stato teorizzato da Agostino (De libero arbitrio e De natura et gratia) quale causa della capacità umana di dare origine al male in quanto fondamentale «distrazione» dell’anima da Dio, dunque dal suo «irreprensibile artefice», e base costitutiva del peccato originale. D’altra parte, interpretazioni più discrezionali della condotta umana possono far riflettere sul grado in cui il libero arbitrio possa elicitare il desiderio di disobbedire ad un’autorità precostituita in quanto rende possibile proprio la percezione di essere all’altezza di un compito, responsabili e capaci di agire (Ravenna, 2004). La complessa articolazione di dinamiche socio-storiche e componenti psicologiche suggerisce che la comprensione dei processi di atrocità collettive non possa più prescindere da concezioni del male e dei sistemi di valori contestuali, non trascendenti e universalmente validi.

L’etimologia del termine «male» deriva dal latino malum con il significato di male fisico e morale. Il Lessico Universale Italiano lo declina secondo diverse accezioni: come «azione o pensiero non conforme alla legge morale e quindi contrario alla virtù, alla probità o anche al buon costume»; come «cosa non buona, quindi ingiusta, non utile, non opportuna»; come «ciò che reca danno, svantaggio, incomodo»; oppure come «sofferenza, dolore» in senso fisico. Già in questi tre livelli di significato del male è possibile notare quanto l’accezione di una morale trascendente si accompagni fondamentalmente a quelle strumentale e fisica. Nel Vecchio Testamento è presente una nozione di male connaturata alla bontà del creato tanto che Dio viene rappresentato quale origine del bene e del male fisico, responsabile di ogni calamità, e il male fisico viene strettamente connesso alla colpa (o peccato) quale prova di predilezione di Dio verso i giusti. Nel Nuovo Testamento, invece, la questione del male si intreccia alla morte e resurrezione di Cristo. In questo caso la sofferenza di Cristo che si assume tutti i peccati dell’umanità viene messa in relazione al dolore fisico degli esseri umani e il conseguente concetto di colpa non rappresenta più un mezzo di espiazione o di riscatto, bensì di compartecipazione alle sofferenze di Cristo che implica santificazione (san Paolo, 1 Cor 15; Gal 3, 13; Fil 3, 10-11). Dunque, questa breve disamina della questione del male a partire da Agostino fino al Nuovo Testamento consente di enucleare alcune importanti articolazioni del rapporto fra bene e male: estraneità reciproca e compresenza, perfezione e limite, condanna e prospettiva escatologica di salvezza, trascendenza e caducità, utilità e ontologia, astrattezza e fisicità, dolore punitivo e dolore redimente.

Uno dei principali fattori di esclusione morale che resero possibile l’Olocausto è stato proprio il tentativo di scindere il coinvolgimento personale, emotivo ed esistenziale dal trattamento seriale, industriale, ideologico, di esseri umani che era presente anche oltre i confini della Germania. Le precondizioni che resero possibile l’ascesa di Hitler, secondo Norbert Elias (1989), furono proprio modelli di violenza e diseguaglianze sociali in seguito effettivamente legittimate attraverso il razzismo scientifico e la cultura della completa malleabilità del mondo. Il ricorso a leggi di natura su onore, sangue, nazione e razza consentirono di tracciare profili di superiorità e inferiorità intrinseca e trascendente attraverso la «moralizzazione» di condizioni materiali e corporee. I sentimenti individuali assunsero il rango di soggettività che inquinava la corretta esecuzione di un piano razionalizzato di sterminio in cui la riproducibilità delle azioni poteva garantire uno standard di oggettività, in altre parole di ossequio a leggi e regole di un vivere «comune» da cui doveva essere bandita la pubblica esposizione dell’emotività.

Pertanto, il male si incarna innanzitutto in relazioni moralmente costituite in cui il contatto individuale diviene un ostacolo alla persecuzione fisica. In questo senso, i fattori di esclusione morale da una comunità prevedono l’esclusione da regole condivise di giustizia ed equità e legittimano status di strumentalità e non di dignità intrinseca per gli individui che ne sono vittime. I confini dell’appartenenza ad una comunità morale sono stati ampiamente discussi da un punto di vista filosofico e spaziano dalla capacità di provare dolore, al valore in sé, all’appartenenza alla specie o alla consapevolezza di sé (Castignone, 1988; Midgley, 1983). La riflessione sull’appartenenza ad una comunità morale, a mio avviso, comporta l’inclusione di un senso di protezione e/o «proteggibilità» assieme ad una nozione di godimento quale piano esplorativo delle possibilità di assenza/presenza/compresenza di diversi gradi di disagio e simpatia nel contatto interindividuale. Godere può proteggere? La piacevolezza si esprime in pienezza o vuoti di relazione? Come poter accostarsi alle relazioni interspecifiche alla luce di questi interrogativi?

La presenza sensuale e sensata degli animali

Come esposto da Marion Vicart in «L’uomo e il cane a tavola: due modalità di essere presenti», esplorare la compresenza umano-animale durante frammenti di vita quotidiana può essere utile per rendere conto di «uno stare bene tiepido» che Vicart individua come modalità qualificante il benessere relazionale interspecifico. L’attenzione alle «parentesi di benessere», al tepore emotivo di un contatto fra umano e animale che può occupare anche i margini di un frame fenomenografico, confermano a mio parere innanzitutto che gli stati emozionali positivi aumentano la quantità di sforzi cognitivi messi in atto per elaborare l’informazione e dunque il piacere è associato ad una migliore qualità del pensiero (Sullivan e Conway, 1989). Come si evince dalle foto commentate nell’articolo di Vicart, il contatto individualizzato ed intenzionale fra il protagonista umano e il protagonista animale rappresenta una possibilità di interazione e si nutre di varie forme di prossimità: sguardi laterali e diretti, gesti di avvicinamento e indessicali, posture del corpo, mobilità o immobilità degli utensili presenti nell’ambiente circostante, partecipazione di altre figure umane. L’ordinarietà di tale «stare bene tiepido» evidenzia non solo che la compresenza umano-animale può essere meglio analizzata e vissuta al di là di un evento singolare di gioia collettiva o passione fervente, bensì che lo sguardo può non essere il contatto primario a testimonianza di un’intenzionalità fra due agenti e che il silenzio degli animali è competitivo. In altri termini, la tranquillità può accendere relazioni e l’inattività del cane posto alla periferia del frame del pranzo può attrarre l’attenzione di un altro umano significativo coinvolgendolo in una sensazione di benessere in cui anche i vuoti possono essere interessanti e non essere sinonimo di noia ma di pace (Kundera, 1985). Tale prospettiva di analisi fenomenografica consente di cogliere la fondamentale relazionalità dell’esperienza e il pensiero, la costruzione di significato, come processi non strettamente mentali. Pertanto, sarebbe più adeguato cominciare a parlare di mente relazionale, affettivamente incarnata e che necessita di pratiche di consapevolezza del corpo e dell’organizzazione (o disorganizzazione) sociale attraverso cui siamo inseriti nel mondo (Stanley, 2012, p. 69). La presa in cura, la curiosità e l’apertura di queste parentesi di benessere consentono l’emergere di una soggettività incarnata quale consapevolezza di interdipendenza E distinguibilità fra io-me-me stessa/o ASSIEME ad altri s-oggetti di realtà. Proprio in virtù di questo è interessante sottolineare l’analisi di Vicart non solo diretta alla relazione corporea immediatamente rintracciabile nel frame di interazione prescelto fra il cane e l’uomo, bensì posizionare il focus dell’indagine anche sulle singolarità umane e animali precedenti e susseguenti le parentesi di benessere. Lo sguardo su di sé, sulla stessità, viene pertanto visto già dall’interno come un rapporto-relazione-conflitto-interdipendenza al di là della dinamica in-between subjects. Le condizioni che consentono la formazione di soggettività-in-relazione richiedono una sorta di meta-consapevolezza del punto in cui sorgono spinte di piacere e di dolore tali da motivare una «consapevolezza pre-soggettiva» di nessun particolare contenuto ma che orienta azioni, sensazioni corporee, risposte e pratiche discorsive (Stanley, 2012). La soggettività incarnata (Traversa, 2012) permette di cogliere la corporeità come una componente agente e strumentale delle interazioni sociali, capace di agire e motivare la ricerca di contatto restando sempre altro da sé.

La diversità fenomenica dell’incontro interspecifico come illustrato da Vicart pone in rilievo che diverse soggettività non solo possono essere sociali ma che possono essere piacevolmente sociali. Tale assunto si trova in contrasto con la significativa componente neoliberale secondo cui «tutto ciò che è sociale potrebbe essere altrimenti» (Gershon, 2011, p. 537). Lo «stare bene tiepido» rappresenta una modalità della relazione che coniuga piacere e stabilità nel tempo senza l’impiego di risorse cognitive e affettive tipiche degli stati competitivi votati a passioni come eventi frenetici e unici. Infatti, l’attenzione rilassata dell’uomo verso il cane motiva e costituisce un ambiente psicologico in cui la similarità individuale non è discriminante nella presa in cura, e il beneficio dello stare insieme si esplicita lungo il delicato asse del valore della relazione in sé e del valore della relazione per sé. Ritengo che questo punto sia saliente per affrontare i fattori di esclusione da una comunità morale che conducono a massacri relazionali a partire dal valore intrinseco e strumentale del rapporto con l’alterità. Ad esempio, Opotov (1993) ha mostrato come principale risultato dell’esperimento su quali siano i fattori determinanti dello spostamento dei confini morali delle persone nei riguardi degli animali che l’estensione del campo di giustizia si modifica in rapporto all’utilità percepita dell’animale e all’intensità del conflitto. Contrariamente alle ipotesi dei ricercatori, la similarità percepita riduceva piuttosto che incrementare i confini di vigenza della giustizia. Una delle spiegazioni fornite a questo proposito è stata che mentre percepire un altro-da-sé come benefico a sé produce un insieme inclusivo fra difesa di sé e difesa dell’altro, la percezione di similarità può elicitare sentimenti di contrasto e competizione fra il proprio e l’altrui interesse1. Lo spostamento dei confini morali dello spazio di giustizia, allora, richiede di analizzare quanto il valore intrinseco o la capacità di provare dolore e piacere fisico dell’animale potrebbero rendere evidente un’interazione con l’animale non solo non paritaria in termini di differenze di potere ma in cui l’animale sia sempre e solo ricevente una parentesi di benessere. Quali forme di reciprocità in un incontro interspecifico potrebbero elicitare benefici condivisi e deterrenti sia rispetto all’antropomorfismo che al rifiuto della dignità animale?

Il contatto simbolico fra diversità contamina spesso il contatto vero che può nascere solo dall’esperienza personale, a livello di relazioni concrete lungo le traiettorie di una geografia sociale che guida le nostre emozioni, quindi anche le nostre azioni nei confronti degli altri. L’indifferenza o l’invasività degli spazi altrui in quanto cifre relazionali ci consegnano la problematicità del concetto di «responsabilità» da punto di vista sociale così come giuridico. La relazione interspecifica impari ma in compresenza ci interroga sul «chi» dell’azione in una realtà in cui siamo molto più spesso «agiti/e» da un contesto culturale, sociale e politico preciso.

Dalla formulazione di leggi al potere generativo dei fatti

Il concetto di «agency» mutuabile dallo studio di Erwin Goffman (1974) commentato all’interno dell’articolo di Vicart (2009) si presenta sotto forma di cognizione distribuita2 e si realizza nella relazione fra corpi e oggetti materiali silenti ma comunicanti. Come già sottolineato, la separazione netta fra soggettività e strumentalità non consente di cogliere che il corpo senziente può essere sia soggetto che strumento. La definizione del «chi» dell’azione consente la formulazione di diritti e la conseguente riflessione su quali fini abbia la strumentalità: quanto in direzione del sé e quanto in direzione dell’alterità. La legittimazione giuridica di tali fini implica l’interesse per l’alterità in quanto benefica o simile al sé. Gli utensili e il generale framework di un rituale quotidiano non sono considerabili soggettività-strumento in quanto non dotati di volontà propria o di un sistema nervoso capace di sentire piacere e dolore. L’accumulo di oggetti, macchinalità, può essere in relazione con il benessere delle soggettività, pertanto il prendersene cura può far parte di un’analisi di cognizione distribuita e delle parentesi di benessere quotidiane. Approfondire la reiterazione e la meccanicità di tali ritualità può incrementare il dibattito su come questi momenti rappresentino una cultura estensiva (Lash, 2010) dei rapporti umano-animale. L’automatismo e gli aspetti dati per scontati di ogni interazione, sempre secondo Lash (2010), evidenziano il carattere estensivo della cultura del capitalismo contemporaneo e dell’informazione globale tendenti essenzialmente all’omogeneità, alla diffusione geografica su larga scala, all’identità, al già-attuale, alle cose-per-noi, ad un concetto di stabilità e collegamento di tipo religioso. Il senso religioso di tale cultura deriva dalla tensione all’uniformità e alla congiunzione pressoché totalizzante fra aspetti ontologici e strumentali, fra fusione sé-alterità e celebrazione di posizionamenti di influenza già dati, fra orientamento etico e orizzonte culturale. D’altro canto, vi è una tendenza delle modalità di scambio e di conoscenza attuali che è di tipo intensivo, vale a dire orientata alla differenza, alla potenzialità, virtualità, alle cose-in-sé e all’ontologico. Il passaggio dall’estensivo all’intensivo implica una riconfigurazione della singolarità e delle categorie generali così da poter segnare, a mio avviso, uno slittamento dall’animalismo o antispecismo al caso o individuo animale. Se la res extensa della questione animale potrebbe essere funzionale a rappresentare non solo ciò che quantitativamente accomuna ma le modalità di esistenza qualitativa più assestate, la res cogitans potrebbe essere funzionale a rintracciare la produzione di squilibri e aspetti innovativo-individuali. Questo spostamento concettuale sostanzia il tentativo di riconfigurare il binario mente-corpo secondo gli assi della qualità e della quantità. Se quest’ultimo ha storicamente segnato la ripetibilità di ciò che è stato definito fisso e immodificabile («corporeità», «natura», «istinto», «specie», etc…), il primo ha invece segnato l’originalità, la creatività, la singolarità. Le dimensioni di produzione e di riproduzione nella prospettiva di Lash consentono, a mio avviso, di rendere conto in maniera più esaustiva e soddisfacente dell’equilibrio-squilibrio fra estensivo ed intensivo. In questo senso, la compresenza e non più il conflitto fra aspetti riproduttivi e produttivi può rendere conto del ruolo degli strumenti attraverso cui casi singoli di compresenza umano-animale, come quello esposto nell’articolo di Vicart, possono reiterarsi o rappresentare delle idiosincrasie dovute a particolari ambienti ed individui. Lo spostamento da un’ottica estensiva ad una intensiva richiede, altresì, lo spostamento da un regime di rappresentazione ad uno di comunicazione. In altri termini, la descrizione di come e cosa si mette in condivisione in un incontro umano-animale pone al centro l’idea che lo strumento è sostanza e che le corporeità anche apparentemente silenti fra loro costituiscono questo evento comunicativo nella sua singolarità.

Tale transizione opera secondo una sorta di regime ontologico di potere piuttosto che epistemologico, vale a dire che l’interesse teorico-pratico risiede più nell’accostarsi a come «si è con gli animali’ che nel come «si conoscono gli animali’. Le modalità dello stare assieme in un flusso di eventi non categorizzabile e non assimilabile all’etica dei diritti mostra una dimensione del potere non egemonica, dall’alto, bensì con potenzialità di forza generativa, dal basso. Se la regolamentazione e l’analisi di disuguaglianze consentivano una visione prettamente normativa del potere e della politicità delle relazioni, l’interesse per gli aspetti di novità negli eventi singoli di compresenza fra diversità fanno emergere un regime di potere intensivo dei fatti. Il passaggio dalla formulazione di cambiamenti globali e dall’alto (leggi) all’attenzione per la comunicazione di cambiamenti e di fatti dal basso suggerisce un diverso tipo di attestazione di modifiche di status, che non necessita di diritti e rappresentanza per segnare stabilità ma che può diffondersi e incarnarsi attraverso nuovi mezzi.

I rapporti fra differenze tendono a mantenere, ovviamente, un certo grado di instabilità e di potenziale ingiustizia. Sarebbe interessante continuare ad esplorare frames di vita quotidiana umano-animale, presumibilmente meccanici ed iterativi, alla ricerca di momenti o elementi che suggeriscano la possibilità di provare bellezza e piacevolezza in/con qualcuno/a fine a se stesso/a. Quando la parentesi di benessere fra un cane ed un essere umano, per esempio, necessita di contatto corporeo e quando esiste pur senza quest’ultimo? Qui, infatti, potrebbe risiedere la duplicità della presa in cura, vale a dire il piacere di assistere come produttivo in sé e capace di solidificarsi in relazioni durature pur preservando le specificità di entrambi i poli.


Note

1. A questo proposito si veda anche Deborah Slicer, (2007). Your Daughter or Your Dog? A Feminist Assessment of the Animal Research Issue, in The Feminist Care Tradition in Animal Ethics, a Reader, J. Donovan e C. Adams ( a cura di), Columbia University Press: New York ( apparso in Hypatia: A Journal of Feminist Philosophy, 1991, vol.6, n.1).

2. Il concetto di «cognizione distribuita» (Hutchins, 1995) fa riferimento al processo di conoscenza come evento non individuale bensì incardinato in dinamiche sociali e contestuali ed è particolarmente legato alla nozione di conoscenza come azione-situata. Il contesto interattivo si compone, in questo senso, di informazioni ed elaborazioni cognitive diffuse tra persone e attraverso strumenti. L’approccio situato contrasta la programmabilità delle azioni sottolineandone la dimensione dinamica, condivisa e meno predefinita.


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