Ama il tuo prossimo, ama il tuo cane

Di Nadia Sanger

Traduzione: Agnese Pignataro.

Questo articolo è originariamente apparso su Thought Leader il 4 gennaio 2013.


L’accusa pretestuosa di essere «non-africani» continua ad essere usata in diversi modi da leader politici per stabilire i limiti delle identità africane con la scusa della decolonizzazione. Nei servizi giornalistici dedicati all’ultima esternazione del Presidente Zuma contro il possesso di cani e il modo in cui questi vengono trattati dalle persone di colore, ci sono diverse idee bizzarre – e piuttosto normative – sugli umani e sugli altri animali, e sulla relazione che essi intrattengono gli uni con gli altri nel nuovo Sudafrica; una zona che richiede [un processo di] decolonizzazione. L’idea secondo cui amare e prendersi cura di altri animali sia qualcosa di «non-africano», un fenomeno tipico della cultura bianca che i neri cercano di emulare, ha una lunga storia in Sudafrica. Se da un lato buona parte di questa storia ha una sua fondatezza (bianchi sudafricani che tratta(va)no i domestici neri come individui di minor valore dei loro animali da compagnia), purtroppo questo discorso non si è spinto oltre le ultime osservazioni di Zuma, e questo a danno del progetto di decolonizzazione. Cosa significa essere trattati «meglio di» o «peggio di»? E chi decide il criterio secondo cui si distingue ciò che è «meglio» e ciò che è «peggio»?

In quanto partigiano della Costituzione sudafricana, il Presidente Zuma, in questo caso, sta facendo esattamente quello che ci si aspetta da lui. Sulla carta, la nostra Costituzione è una magnifica immagine dei diritti umani. Ciò che manca in questi diritti di carta è un senso di responsabilità nei confronti di tutti coloro che sono in grado di godere di tali diritti. Alcuni umani, come sappiamo, ottengono più facilmente di altri l’accesso ai diritti umani. Questo accesso è mediato da diversi fattori tra cui la razza, il genere, la sessualità e il fatto di essere o meno portatori di handicap.

In che modo cani e gatti, gli animali domestici più popolari, intervengono in questa riflessione sui diritti umani? Nessuno. Essi non hanno nessun diritto che conti per le loro vite. Nel mondo intero, anche se in modi diversi, quello che conta nei discorsi sui diritti umani è tutto ciò che interessa gli esseri umani. I diritti degli esseri umani devono essere protetti ad ogni costo. Nei discorsi della maggior parte della gente deve essere così, e questo è essenziale al progetto di decolonizzazione. Nei discorsi di una minoranza di persone, gli altri animali meritano di essere trattati come soggetti in quanto tali. Questi due punti di vista non si escludono reciprocamente. Possono essere compresi in un’unica nozione, ma c’è bisogno di un cambio di marcia nel tipo di domande che poniamo, e nel modo in cui diamo le risposte, rispetto agli umani e agli altri animali, alla razza, alla classe e all’identità in senso ampio, nel contesto attuale del Sudafrica.

Per rendere giustizia ai commenti del Presidente, possiamo ammettere che cani e gatti non dovrebbero essere comprati. Sfortunatamente, questa pratica è effettivamente connotata in senso razziale, ma i Sudafricani bianchi di classe medio-alta non sono gli unici colpevoli. Pit bull e altri cani domestici di razza pura vengono comprati da persone di colore (soprattutto uomini) per essere allevati ed essere usati in combattimenti, nelle comunità socialmente svantaggiate e tra la classe operaia. Un progetto di decolonizzazione deve implicare la consapevolezza che ci sono milioni di gatti e cani non desiderati rinchiusi nelle gabbie dei rifugi in tutto il Sudafrica; questi animali dipendono interamente dalla raccolta dei fondi necessari per nutrirli e per sterilizzarli al fine di limitare le nascite di ancora più gatti e cani i quali semplicemente non possono – e non saranno – presi a carico dagli esseri umani. In particolare, la stupidità di allevare cani di razza pura si oppone alla costruzione di una democrazia che si vuole costruita sulla premessa di «una vita migliore per tutti».

La domanda più importante riguarda il modo in cui pensiamo gli altri animali e il modo in cui ciò è rappresentato nel progetto di decolonizzazione. Un nodo essenziale della domanda è la comprensione del potere: come opera il potere, chi arriva a detenerlo e chi a subirlo. Gli animali da compagnia, in linea generale, stanno messi meglio di mucche, pecore, maiali, polli e pesci – gli animali che vengono mangiati dagli umani. La schiavitù e la tortura degli animali allevati per essere macellati per soddisfare bisogni umani deve essere compresa come facente parte della domanda sulla decolonizzazione. In questa democrazia sappiamo cos’è la schiavitù, non è vero? Sappiamo cosa vuol dire essere ridotti in schiavitù, cosa significa usare concetti binari (noi e loro) per tenere sotto controllo gli altri e togliere loro il potere. E dovremmo capire le conseguenze di questo modo di pensare. La realtà con gli altri animali – quelli da compagnia e quelli allevati per essere cibo – non è diversa.

Ciò che non dovrebbe accadere è che, per ribattere alle affermazioni del Presidente Zuma, i Sudafricani bianchi si mettano a giustificare il loro comportamento di amanti degli animali. Quello che i Sudafricani bianchi dovrebbero giustificare è il loro mancato contributo alla decolonizzazione nel Sud Africa attuale, e il modo in cui le loro scelte e le loro pratiche conservano e rinforzano la neo-colonizzazione. Cosa che si realizza in molti modi: comprando «pets» nei negozi, organizzando corse di cavalli, comprando carne animale nei supermercati (quella di animali «allevati in libertà» è l’ultima moda, che aiuta a soffocare il senso di colpa) e altre pratiche che perpetuano il trattamento crudele e strumentale degli animali. In un certo senso, i Sudafricani bianchi privilegiati devono darsi da fare per diventare «non bianchi»; per riflettere su se stessi e realizzare quanto ancora usino il privilegio che hanno ereditato per fare scelte che continuano ad andare a loro vantaggio, usando l’essere bianchi come passaporto. La nuova classe media nera sudafricana deve capire che il modo di pensare e di agire dei bianchi non è un diritto umano a cui si deve accedere, e da tenere in alta considerazione, ma un comportamento estremamente spiacevole, che lascia il privilegio e il potere incontestati nel processo di decolonizzazione. Ho l’impressione che questo è ciò che sta ottenendo il Presidente Zuma.

In che modo interpretiamo l’amore e la cura nel progetto di costruzione nazionale e di decolonizzazione? Quali soggetti ottengono amore, e come? Quali sono quelli di cui ci si prende cura, e la cui vita viene rimpianta? C’è una differenza tra questo discorso e quello dell’apartheid? L’accusa di «trattare gli animali meglio degli umani» da parte di coloro che si autodefiniscono «Africanisti» e di coloro che si autodefiniscono «intellettuali» deve essere analizzata e decostruita. Gli individui che hanno diritto di vivere, di ricevere cura ed essere rimpianti non possono appartenere unicamente alla cerchia umana. Perché in questo mondo esistono alterità animali che vivono, amano, e rimpiangono la perdita di altri. In questo mondo ci sono altri individui che si ritrovano qui e vivono seguendo le regole degli esseri umani. Anche questo fa eco alla logica del colonialismo e dell’apartheid, e deve essere connesso al modo in cui comprendiamo la discriminazione, l’alienazione e la violenza nel Paese e nel mondo in cui viviamo.

Così, quando il Presidente Zuma e altri leader politici fanno commenti di ogni sorta che reificano la differenza in un modo che non è utile al progetto di decolonizzazione, è necessario denunciare le loro responsabilità e indurli a vergognarsi. La loro mancanza di lungimiranza e la loro incapacità di capire ed articolare la decolonizzazione in quanto processo che richiede un pensiero critico, non ci fa avanzare verso la libertà. Ci tiene prigionieri e, in realtà, ci fa avanzare verso una schiavitù ulteriore. Comportarsi in modo crudele, far male agli altri e a noi stessi: è questo, secondo me, che non è «africano». Non è «africano» nel modo in cui io voglio essere «africana».

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