I sensi nei «rifugi» per animali

Di Davide Majocchi


Ho lavorato anni in canili e rifugi per animali di altre specie; attualmente gestisco in provincia di Milano la casa famiglia Lunacorre per animali in difficoltà e lavoro in un canile che si pone come presidio zooantropologico per il territorio della bassa varesina. Sto approfondendo la mia conoscenza cinofila ma sono quasi completamente digiuno per ciò che riguarda saperi specifici su maiali, capre, mucche, pecore, asini, cavalli, cinghiali, anatre, oche…per quanto li abbia a lungo accuditi. Sto cercando di relazionarmi adeguatamente con gatti, conigli, topi, porcellini d’india, galli e galline che vivono insieme a me.

Affronterò qui il tema «rifugi per animali» in chiave liberazionista, con l’intento di delineare prospettive per quei contesti ove si intrecciano materialmente i rapporti degli esseri umani con gli animali: la convivenza reciproca.

Mi considero un militante per la liberazione animale, particolarmente attento a considerare le modalità e finalità libertarie e liberazioniste del mio operare. Non per questo, voglio premettere subito, disprezzo ogni aspetto delle attività di altri gruppi zoofili e/o animalisti protezionisti. Più semplicemente, però, credo che sia utile interrogarsi sui presupposti teorici e sulle prassi di chi ritiene possibile salvare vite animali senza preoccuparsi in maniera fondata e fondante del contesto sociale in cui insieme agli altri animali tutti «avveniamo». Il motivo per cui cerco di coniugare strettamente la mia attività di cura degli animali con gli aspetti più politici dell’agire in favore di essi, risiede nella mia profonda convinzione che, per ottenere cambiamenti di vita reali, serva passare da riflessioni critiche.

Quest’articolo riprende una riflessione che ho iniziato a proporre all’incontro di Liberazione Animale 20131 sui motivi che mi portano a ritenere importante riferire il momento della cura dell’altro con l’atto di pensarlo in maniera diversa dal consueto: gli animali non tanto come vittime innocenti da soccorrere, quanto come schiavi vessati dalla società specista, che covano ideali e progetti propri di liberazione. Ho proposto questo intervento come stimolo alla discussione interna, rivolto a quella parte di movimento interessata a legare le idee alle pratiche (e ho constatato che è l’ala radicale, per quanto esigua, l’unica ad oggi che provi a farlo); come un’occasione dunque per fare chiarezza sulla necessità di porre seri e definiti fondamenti anche al disporre di rifugi per animali non umani.

Ho individuato alcuni aspetti di carattere preliminare che determinano i modi di agire:

  1. Perché accogliere animali?
  2. Come trattare gli animali nel rifugio?
  3. Quando decidere di accoglierli?
  4. Dove ospitarli?

Il tipo di risposta che possiamo dare a questi quattro punti determina modi drasticamente differenti sia di interpretare la propria opera di gestori, sia soprattutto il tipo di vita degli animali ospiti; ed ha importanti conseguenze sul significato che i rifugi possono avere nel contesto del movimento per la liberazione animale.
Attualmente possiamo individuare alcune riposte principali (che non escludono l’esistenza di altre intenzioni e aspirazioni). Sono le risposte che caratterizzano quello che potremmo chiamare «rifugio protezionista».

  1. Gli animali vengono accolti perché altrove sono maltrattati e uccisi.
  2. Agli animali ospiti viene risparmiata la vita, il dolore e il lavoro.
  3. Essi sono accolti ogni qual volta sia possibile farlo (si spera previa oggettiva valutazione di costi e spazi per spese di gestione).
  4. Gli animali sono ospitati all’interno di vecchi e nuovi recinti della nostra struttura/rifugio.

Quali problemi comporta questo atteggiamento?

  1. Questa motivazione, per quanto encomiabile, risponde alla tipica esigenza ‘protezionista’, quella di salvare il maggior numero possibile di animali; un impegno di natura etica, che però spesso porta a trascurare il fatto che coloro che si «salvano» sono individui, che desiderano far parte di una comunità.
  2. Le intenzioni espresse qui, ancora e ancora lodevolmente, seguono la logica emergenziale di sottrarre gli animali da comportamenti violenti altrui, senza stabilire quali effettivi miglioramenti possiamo e dobbiamo realizzare oltre ad assicurare ad essi le funzioni corporali principali (cibo, acqua e riparo, allargamento dell’area destinata loro – «recinti più grandi» -).
  3. Questo criterio evidenzia l’obiettivo di tenere fede agli impegni precedenti, focalizzandosi totalmente su di essi, tralasciando così altri elementi come quello di promuovere la conoscenza e la frequentazione approfondita tra volontari, visitatori e individui animali non umani del rifugio.
  4. Si tratta di una programmazione ancora una volta di tipo «protezionista» che caratterizza le odierne tendenze animaliste dell’accudimento, e che si esplica nella creazione di apposite aree «protette», in cui gli animali possono finalmente sfuggire alle leggi dello sfruttamento (che imperterrite continuano a vigere al di fuori del perimetro «rifugio»). Ci si sottrae forse così al mondo che non vogliamo, ma si sperimenta poco -assai poco- quello che vogliamo e soprattutto quello che suggeriscono gli animali. Ancora una volta gli animalisti si prendono «carico di», mentre solo debolmente (ed occasionalmente) coinvolgono i simpatizzanti e/o i curiosi, il sistema globale di vita non è messo radicalmente in discussione né si spendono energie in progetti di interazione uomo-animale dal carattere rivoluzionario.

Evidentemente so che molte cause di tante limitazioni di pensiero e azione sono esterne al mondo animalista: come ho detto, lavoro in un canile dove ogni anno passano migliaia di animali e gestisco una casa famiglia con 40 animali che altrove vivevano in pessime condizioni psichiche e fisiche. Ciò che però trovo irrinunciabile in ambito liberazionista è il tentativo di portare avanti progetti che mirino ad innescare modifiche dello status quo per mezzo di uno sguardo ‘diverso’ rispetto a quello che siamo portati ad avere, malgrado gli ostacoli che irrimediabilmente i problemi impongono. La cultura dominante si propone a tal punto come unica e insormontabile, che sembra possibile contemplare solo alcune parziali soluzioni di contenimento ai problemi che essa porta con se; il compito di ogni pensiero di emancipazione sta però nell’immaginare e sperimentare alternative radicali all’attuale funzionamento del sistema.

L’esperienza di Lunacorre e del canile «evoluto» in cui lavoro mi porta a caratterizzare diversamente un rifugio per animali concepito in senso liberazionista.

Accogliere animali perché altrove soffrono: certamente, senza avvertire questa sensibilità non saremmo qui a parlarne; ma bisogna anche porre l’attenzione sul fatto che questa condizione iniziale di vittime non impedisce di far evolvere il nostro rapporto dalla fase «salvifica» a quella di «reciproca conoscenza»; il che richiede l’elaborazione di capacità relazionali individuali fra me/noi e l’animale nonché l’acquisizione degli opportuni saperi di tipo etologico: gli animali non sono riduttivamente soggetti «da salvare», cui dare riparo e cibo, qualche carezza e cure veterinarie al bisogno, bensì esseri dalle incredibili capacità cognitive ed emozionali, che possono riaffiorare solo in contesti di ricollocazione sociale intraspecifica ed interspecifica. Quei maiali detenuti in «recinti» dove possono non temere la mano del boia, non tarderanno molto a ricadere nella profonda angoscia della noia in assenza di una degna esistenza, che gli si confaccia e che li soddisfi. La consapevolezza di quanto sia complessa la questione della felicità degli animali si sta affermando per quanto riguarda i cani; sono i cinofili oggi i maggiori portatori di conoscenze di tipo zooantropologico per la specie Canis Familiaris; conoscenze che meritano a mio avviso di essere apprese, arricchite di un approccio politico che tenda all’uguaglianza nella differenza e infine estese a tutte le specie animali che vivono a varie distanze sociali da noi umani. Gli animalisti, credo, dovrebbero ammetere a se stessi che sovente li affligge l’impellenza del «dover salvare e basta», il che porta a dedicare troppo poco tempo ed energie ad accrescere la qualità della vita dei propri compagni di vita animali. In tal senso ha molto da apprendere e al contempo da dare, ne sono convinto, un movimento che, invece di divulgare meri principi moralizzatori, desideri liberare le relazioni sociali: un rifugio liberazionista dovrebbe saper trasformare i principi ideologici antispecisti in dinamiche sociali portatrici di relazioni di emancipazione fra i suoi ospiti umani e non umani. Relazioni che saranno il fulcro del progetto rifugio. Sarei felice se i rifugi si proponessero un giorno di essere rifugi per gli animali almeno quanto lo sono, di fatto, per gli umani che «amano» gli animali.

Tratteremo dunque gli animali ospiti consci del fatto che essi hanno bisogno di più tempo, più spazio e accortezze relazionali riferibili alla loro specificità e al loro etogramma. La logica puramente emergenziale non sarà più sovrana legge all’intero del nostro progetto, ma tutte le scelte andranno riferite a criteri di «buona vita» stabiliti su più ampie e complesse considerazioni sull’esistenza animale. Come soccorritori non pietisti di animali abitiamo piccole isole emarginate, che ad oggi caratterizzano più la nostra singola(re) diversità dalla mentalità diffusa che un condiviso atto rivendicativo di opposizione; interrogarci sulla premessa stessa del nostro agire e pensare potrà aiutarci a capire che bisogna costruire solidi ponti per la terra ferma piuttosto che reti fra operatori di rifugi animalisti. La terra ferma che oggi ci manca sotto i piedi e che domani vorremmo attraversare evitando di percorrere strade che pullulano di cadaveri che ai più paiono invisibili dato che prima, quando erano in vita, erano giudicati «senza voce», «senza idee» e dunque inascoltati. Un aspetto importante della ridefinizione di obiettivi e modalità di organizzazione dei rifugi liberazionisti consisterà perciò nell’ampliare le capacità di affidamento degli animali e nell’offrir loro permanenze ricche di esperienze, dentro e fuori le mura che cingono i rifugi.

Gli animali verranno accolti in base alle nostre conoscenze etologiche, alle predisposizioni relazionali con una specie piuttosto che con altre, alla disponibilità di collaboratori e volontari, alle caratteristiche ambientali del territorio in cui sorge il rifugio: in sintesi cercheremo di porre in essere non una libertà intesa come selvaticità (riappropriazione di autonomia ed indipendenza in una supposta natura incontaminata), ma libertà relazionale-partecipativa, come avviene per noi animali umani, che res(is)tiamo nelle società di massa. Gli animali saranno accolti sulla base della preparazione necessaria a «prendersi cura» di loro evitando ogni mania «collezionista» – non sono certo che il compiacimento derivante dall’essere contornati da animali affascinanti non motivi molti sedicenti amanti degli animali.

Tuttavia è mia opinione che, se dedicheremo tutte la nostra attività concernente le relazioni dirette con gli animali nel ‘disporre di rifugi per loro, verremo meno al compito forse più importante del movimento di liberazione animale. È vero che l’obiettivo è vivere con gli animali; così come è vero che incrementando la comunicazione verso l’esterno dell’attività dei rifugi, si possono ampliare canali mediatici utili. Ma non sarà replicando «in meglio» un’attrattiva simile a quella di zoo e circhi che un movimento di liberazione si avvicinerà all’obiettivo di vedere decrescere sensibilmente il grado di dipendenza che lega oggi gli animali agli esseri umani, una dipendenza assolutamente sbilanciata e oltre misura che è all’origine della condizione animale di «schiavi senza terra». Solo interrogandosi su come, situazione per situazione, sia possibile supportare la libertà degli animali di decidere della loro vita e sostenerne le loro spinte di autodeterminazione, potremo aiutare gli esclusi di oggi a convivere da liberi con la specie oggi «padrona». Pertanto il presupposto protezionista secondo cui è sempre preferibile la sicurezza del rifugio dovrà essere valutato piuttosto a partire dal fatto che non deve esserci un antitesi fra rifugio e difesa, primaria, degli spazi ancora vivibili per gli animali.

In quali luoghi ospitare gli animali, insomma, è una questione che va ben oltre il confine dato dal «rifugio».

Per cominciare a delineare alcune risposte a questa questione, riporterò alcune mie esperienze sul «randagismo» vissute per la via e guardando lontano; con la speranza di poter chiudere un giorno quei sofferti luoghi di emarginazione e concentrazione detti canili. Esperienze in cui, in modo inedito, il «randagismo» non si configura più come «il» problema, la cui soluzione coincide con l’eliminazione (come usualmente fanno i protezionisti -sempre molto attenti a difendere i privilegi fondamentali della propria specie). Che i cani girino per i villaggi umani prefigura la migliore delle ipotesi. Ci fu un tempo della nostra storia relazionale in cui la specie Sapiens Sapiens e i discendenti dei lupi si selezionavano reciprocamente in uno strettissimo processo coevolutivo e credo che un movimento di liberazione animale debba puntare a intercettare quei nodi esistenziali in grado di portarci l’uno a fianco all’altro: frequentando branchi di cani randagi inizio ad intravedere altre società.

Sono sempre stato attratto dai cani randagi. Due avvenimenti lo scorso anno mi hanno avvicinato fisicamente a loro: la richiesta di una consulenza da parte di un responsabile di un Comune di Siracusa e la partecipazione al corso «Vita da branco» di Michele Minunno2. L’osservazione sul campo e le riprese video girate ed analizzate da Michele durante il corso mi hanno permesso di capire cosa mi ispirava profondamente nella vita dei randagi, cosa mi ha sempre lasciato la sensazione che ci fosse qualcosa da scoprire in quei mondi che lottano per non scomparire. Ci si accorge di aver a che fare con veri e propri gruppi familiari, che non soltanto vagano per le strade schivando auto ed elemosinando cibo, ma che stabiliscono un rapporto complesso con un un territorio, mappandolo nella loro mente per mezzo di piste olfattive che si protraggono per chilometri. Le dinamiche di gruppo sono articolate secondo una lunga serie di precise convenzioni comunicative tese ad uno sviluppo sociale armonico: uso delle risorse, conflitti e strategie di pacificazione sono per alcuni versi analoghi a quelli utilizzati dai loro conspecifici che vivono nelle nostre case, ma al contempo giungono ad essere molto diverse a causa delle più ampie potenzialità che offre un contesto non reclusivo o comunque strettamente condotto dall’umano. Alla luce di una visione non strettamente pietistica del cane, lo stesso abbandono della vita di casa può essere letto dal cane come un evento che, pur drammatico, mostra delle positività in quanto passaggio alla vita di strada. D’altra parte l’adozione di un randagio solleva interrogativi notevoli sul percorso contrario, che porta l’animale dalla vita di strada a quella di casa: interrogativi che trovano risposta nelle attenzioni da tenere quando si inserisce un cane in una famiglia umana. Quando invece la destinazione è il canile, l’opera salvifica, che comporta la cattura dell’animale, – se siamo interessati a guardare con gli occhi dell’animale – presenta una serie di criticità, le quali minano profondamente l’idea stessa di canile (quanto meno nell’accezione più diffusa di canile protezionista, in quanto struttura non tesa al reinserimento dell’animale nella società). La relazione fra i randagi e la popolazione umana è un aspetto centrale e che dovrà essere approfondito, oltre che condizionato, proprio da parte di coloro che mirano ad incanalare verso proficui scenari la convivenza fra specie umana e altre specie animali, studiando quelle zone grigie che riempiono la distanza fra comunità animali e comunità umane. L’esperienza che riporto quì testimonia la costanza e la determinazione che i cani «proferiscono» nel difendere il mondo che gli appartiene ma che, come colonizzatori, semplicemente noi ignoriamo.

Un giorno vidi sette cani che dormivano, apparentemente disposti in maniera disordinata in un campo brullo che si distende per ettari ed ettari. Dal punto alto in cui mi trovavo potevo vedere una jeep arrivare dritta verso di loro. Quando io vidi senza sentire, loro sentirono, senza ancora poter vedere. Alcuni accorsero di scatto verso il pericolo, senza staccarsi del tutto dagli altri, allungando le maglie del gruppo, ma senza interromperle. Altri si strinsero intorno ai cuccioli, al centro di quello che si rivelava essere un cerchio di rapporti tutt’altro che casuali. Un altro, più solitario, rimaneva esterno, sospettosamente incline a imboccare la direzione opposta a quella che portava ad affrontare la grossa e rumorosa automobile. I primi abbai iniziavano a contrastare nella aria e nella mia testa il rombo del motore, mentre la sabbia di alzava da entrambe le sponde dell’imminente incontro. Notai allora un cane in particolare: in piedi, fra il ricompattato centro e le sentinelle che scalpitavano contro l’invasore inatteso, stava pensando, più a lungo, intensamente. Quel cane, che scoprii in seguito essere una femmina, si girò verso il cane «esterno», che aveva già girato una zampa per allontanarsi; quei due, pensai, si conoscevano molto bene di certo. Anche il centro quindi ripiegò, mentre le sentinelle volevano dirne ancora quattro al mostro meccanico in arrivo, ma non smettevano di girarsi alla ricerca ossessiva di una conferma da parte degli altri. Ad un certo punto, come fossero un corpo unico di gomma, si girarono tutti e se ne andarono, verso una zona riparata che non presentava minacce. Camminarono un pò, alcuni annusando l’aria, altri il suolo, altri tirando un pò di qua e un pò di là un grosso straccio di stoffa appena trovato vicino un cespuglio. Lei, la cagna, guardava ancora ogni tanto in direzione della jeep, dando la sensazione di segnarsi nella mente il luogo da cui era venuta e quello dove era diretta. Il perché fosse passata di lì non le interessava, ho creduto, ma osservava certamente molto gli umani, così come i sudditi sono costretti a sapere tutto sul temibile re. Alcune cose degli umani da sola non poteva capirle. O forse non voleva, per non rischiare di aderire troppo a quello strano comportamento loro… che con il corpo dicono sempre una cosa, con la voce un’altra e con le emozioni altre milioni ancora. E poi lei la sua vita l’aveva già e la soddisfaceva, pare.

Quel che vedo sono ruoli definiti dalle capacità e capacità che crescono sulle predisposizioni dove la necessità avviene nel manifestarsi e così si creano obiettivi comuni. Mi accorgo che il conflitto è una soluzione presa sempre in considerazione, perché, per quanto si spera sia evitabile, è indispensabile che rimanga, come netta eventualità. Mi accorgo che le comunità dei randagi sono aperte e molteplici e lasciano margini d’azione a chi vuol venire e a chi vuole andare; che il cane che prende decisioni collettive è colui che gli altri guardano, non colui che si fa guardare e che per la maggior parte è femmina (… gli uomini che ho interpellato a riguardo si limitano a dire che ciò avviene perché le cagne hanno meno difficoltà a gestire gli impulsi sessuali). Mi accorgo via via di tante cose, le quali mi portano a pensare che liberare gli animali voglia dire essenzialmente diventarne interpreti- traduttori, addentrandosi in mondi fondati su relazioni tutte da scoprire, imparando a capire il più fedelmente possibile ciò che viviamo con loro. Messaggi di emancipazione da rivolgere a chi gli animali, in fin dei conti, li capisce poco o per nulla.

La liberazione animale non è l’ennesima questione solo umana. Un rifugio è liberazionista non perché si dichiara tale, ma perché questo esprimono gli animali che vi vivono e questo testimoniano i comportamenti degli esseri umani che vi militano.


Note

1. Nona edizione tenutasi le giornate del 5, 6, 7 settembre a Venaus c/o il presidio permanente NoTAV)

2. Istruttore cinofilo e laureando in Medicina Veterinaria con una tesi sperimentale sulle dinamiche di branco in un gruppo di randagi. Esperto in classi di comunicazione, si occupa di riabilitazione di cani problematici. Lavora in due canili per migliorare la qualità della vita ed il benessere degli animali ospitati e per il recupero comportamentale di cani con specifici problemi. Collabora con il dipartimento di fisiologia ed etologia dell’università di Bari per progetti di ricerca e valutazioni di cani problematici.

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