Un, due, tre… ratte!


«Ho detto: Onestamente, Ratta, onestamente, che cosa ne pensate voi ratti di Solidarnosc?

Ha detto: Nella prassi questo pensiero ci è sempre appartenuto.

E in futuro, se una tirannia dovesse opprimervi…

Mai più, ha detto il genere rattesco si nasconderà nei buchi.

Ma se, una semplice supposizione, un superratto…

Ridicolo! ha gridato. Una cosa simile la escogitano solo i cervelli umani. A noialtri niente è sovraordinato»

G. Grass, La Ratta, Einaudi, 1987

Punky, Milla e Janis. Sono i nomi delle mie nuove coinquiline, abitano con me da novembre. Sono giovanissime e pensano solo a divertirsi e mangiare. Hanno uno stile di vita abbastanza notturno e ogni tanto durante la notte mi svegliano. Ma voglio loro un gran bene, non posso più farne a meno. Ah dimenticavo, sono delle ratte, delle ratte bianche da laboratorio.

La nostra storia inizia qualche mese prima, è ottobre e come di consueto leggo le innumerevoli notizie on line che mi scorrono sotto il naso. Una in particolare mi colpisce: si parla di ratti e ratte da laboratorio che «cercano casa». Queste ultime due parole mi hanno colpito immediatamente, in fondo, normalmente, le associamo ai cani e ai gatti… Mi informo e cerco di capirne di più e scopro che tramite I – CARE 1040 ratte da laboratorio sono scampate alla vivisezione. Vengo infatti successivamente a sapere che nel momento in cui, per una determinata sperimentazione, si scoprono metodi alternativi alla sperimentazione animale quest’ultima può (deve) essere sostituita1.

La foto di quell’articolo ricordo che mi ha letteralmente stregato: un musino bianco che esce incuriosito da un vaso con una piccola zampa rosa con la quale cerca di farsi leva per uscire… quando si dice la potenza delle immagini. E in quel momento mi si è accesa la lampadina. Già da alcuni mesi infatti mi confrontavo con la mia compagna di stanza (eh già, a 30 anni mi tocca ancora condividere la stanza con qualcun altro, ma il tenore di vita a Roma non è tra i più bassi d’Italia e di contro lo stipendio non puo’ che essere irrisorio), entrambe desideravamo tanto un animale, ma scartammo subito l’idea di prendere un cane o un gatto per una serie di ragioni, prima tra tutte quella della nostra prolungata assenza durante il giorno. Proprio in quel periodo di confronto vidi l’articolo che parlava di I-Care e dei ratti liberati, alzai il telefono, chiamai Angela – la mia compagna di stanza – e le dissi «Angela, ma se invece di un gatto prendessimo tre ratte?» Senza esitazione mi disse «perché no, proviamoci, puo’ essere un’esperienza nuova ed entusiasmante». Provai una gioia infinita, in primo luogo perché stavo per imbarcarmi in un’avventura del tutto nuova e soprattutto perché mi resi conto di aver trovato una persona di un’apertura mentale straordinaria. Forse se non fossi capitata a Roma e non avessi avuto la necessità di condividere l’appartamento con qualcun altro chissà dove sarebbero ora le mie tre pesti!

Ormai sono passati quasi sei mesi dalla notte in cui andai a prenderle, quando ci ripenso provo ancora le stesse fortissime sensazioni. Mi dissero che sarebbero arrivate verso l’1 di notte a Roma tramite delle staffette organizzate e che potevo andarle a prendere il mattino seguente. Impaziente e, con ogni probabilità, anche particolarmente pressante chiesi se era possibile non aspettare fino al giorno seguente e fortunatamente fui accontenta. Alle due di notte lo sportellone della macchina-staffetta si aprì ed eccole lì, tre gomitoli bianchi stretti stretti tra loro in una gabbietta da viaggio. Erano arrivate finalmente! Di corsa verso casa, ma già spaventata perché una delle tre non si muoveva. Cosa poteva esserle successo? Lo stress? Una contusione? Cosa potevo saperne io, non erano cani o gatti, ma ratti! Chi ha mai avuto dei ratti? La mia unica esperienza risale alla mia visita di due anni fa alla Collina dei Conigli di Monza… Ma per fortuna dopo ore di panico la rattina che mi diede da subito una gran preoccupazione si riprese. La chiamammo successivamente Milla, un diminutivo di Camomilla poiché mi resi presto conto che tra tutte e tre era la più pacata e tranquilla, saperlo prima mi sarei evitata delle grandi ansie!

Lasciai loro il tempo di riprendersi dallo stress del viaggio, e chissà da quali altri infiniti stress, e la mattina seguente cominciai l’inserimento nella nuova casa, una gabbia per furetti da 170 cm X 70 cm. Il tutto avvenne senza toccarle per cercare di ridurre il più possibile lo stress e il primo obiettivo, ovvero inserirle nella gabbia senza farle scappare fu raggiunto! Nel frattempo, ovviamente, mi ero già informata su quello che avrebbero dovuto mangiare, su come allestire la gabbia, su come maneggiarle, sui veterinari specializzati di Roma in animali esotici, ma mi rendo conto ancora oggi di quanto tutto questo non sia sufficiente e di quanto poco conosca l’etologia dei roditori. Ma sto studiando parecchio. Un grosso aiuto l’ho ricevuto senza dubbio da alcuni forum e pagine facebook che per le prime settimane ho letteralmente intasato di richieste, domande e consigli, tra cui in primis Ratmania.it. Lì ho trovato delle persone splendide e sempre disposte ad aiutarmi.

Uno dei momenti più belli è stato sicuramente quello dell’attribuzione dei nomi. Inizialmente, presa dall’impazienza di dare loro un vero riconoscimento tramite un nome proprio, ho dato loro dei nomi simpatici e frizzanti, ma una carissima amica che si è occupata delle adozioni su Roma mi diede un prezioso consiglio: mi suggerì di aspettare ad attribuire dei nomi perché ben presto avrei scoperto i caratteri unici di tutte e tre le ratte. Così feci e in effetti aveva proprio ragione. Nell’arco di pochi giorni conoscere i loro caratteri, i loro atteggiamenti e anche i loro gusti mi ha permesso di riconoscerle quasi immediatamente (i ratti albini infatti sono molto simili tra di loro e riconoscerli, a patto che non ci siano particolari caratteri distintivi, è davvero complicato). Ed ecco allora la ratta più pazza e schizzofrenica, Punky (da Punkabbestia), Milla (da Camomilla) e Janis, la ratta più graffiante e riservata (da Janis Joplin).

Da allora mi sento dire che ne abbiamo fatta di strada. Queste belle signorine, sebbene non abbiano subito nessun tipo di sperimentazione credo che risentano molto, ancora oggi, della loro permanenza negli stabulari dei laboratori. Con ogni probabilità hanno vissuto in piccoli box grandi quanto un foglio di carta A4 senza stimoli, senza contatto umano, nella totale monotonia nell’attesa, un giorno, di essere prelevate da quella scatoletta e finire chissà su quale tavolo di qualche ricercatore. Per fortuna, almeno per loro, il destino ha riservato una bella sorpresa.

Sebbene siano sempre sul «chi va là» e le piccole orecchie rosa e i baffetti siano in continua attività, Punky, Milla e Janis sono molto più rilassate nei miei confronti. In principio era impensabile toccarle, anche se solo per un attimo. Non appena percepivano la mia presenza sgattaiolavano in un battibaleno. Ora invece, sebbene maneggiarle sia ancora molto difficile, si fanno toccare e anzi, accarezzare, anche se per brevi istanti. Ma mi sento di dire che è già una bella conquista. Non nascondo la mia frustrazione iniziale per quello che in un primo momento ho visto come fallimento: in molti mi dicevano che col tempo si sarebbero avvicinate e si sarebbero fatte maneggiare e accarezzare senza problemi; mi consigliavano di «forzare» il contatto e «obbligarle» a prenderle – ovviamente delicatamente -, magari con un asciugamano per evitare possibili morsi. Così il tempo passava ma le tre rattine proprio non ne volevano sapere di farsi prendere. E in tutta onestà, chiamiamolo sesto senso, ma sentivo che forzarle non era la cosa giusta. Arrivai alla conclusione che tutto sommato non era poi fondamentale, l’importante era che stessero bene, in salute e in allegria e soprattutto fossero salve! Poi un giorno le porto dal veterinario per una visita completa (il problema sorge qui, ahimè: non facendosi toccare risulta molto più difficile controllare il loro stato di salute, eventuali escoriazioni, cisti etc. e di conseguenza l’unica alternativa è portarle periodicamente dal veterinario) e succede quello che ormai non credevo sarebbe più successo: una volta tornata a casa, aperto il trasportino una di loro, Punky, comincia ad arrampicarsi sui pantaloni e dopo alcuni tentativi, dopo essersi assicurata che non c’era alcun pericolo, ha deciso di arrivare fino alle spalle e persino sulla testa! E’ stata un’emozione unica. Finalmente cominciava a fidarsi. Lo stesso poi fecero le altre, credo che tra di loro ci sia una forse tendenza all’emulazione. Un po’ come succede agli esseri umani in certe situazioni in cui il primo fatica a sempre a parlare, ma poi, una volta rotto il ghiaccio, a ruota lo seguono tutti. Per le mie ratte mi pare di capire che questo meccanismo sia molto forte. Lo stesso capita infatti in tutte le situazioni nuove. Qualche giorno fa mi sono trasferita e ho notato lo stesso atteggiamento: hanno riconosciuto un nuovo ambiente e quando si sono aperte le porticine della gabbia hanno titubato prima di uscire. Stranamente la prima a prendere coraggio questa volta è stata Janis e non Punky che di solito è la più «impavida». Fuori Janis, via anche Punky e poi Milla che invece non si smentisce mai, e con la sua grazia e la sua calma – apparente – è arrivata appunto per ultima. Non so se questo puo’ essere dipeso dalla sterilizzazione di Punky. Eh già, anche i ratti possono essere sterilizzati. E’ stata una scelta davvero sofferta, perchè l’idea di far operare degli esserini così piccoli proprio non mi piaceva. Ma negli ultimi mesi le «lotte» per l’attribuzione delle gerarchie all’interno del gruppo stavano diventando sempre più intense e frequenti con il rischio di potersi ferire seriamente. E così, per l’ennesima volta, mi sono consultata a lungo con i veterinari (ne avrò contattati almeno tre specializzati in animali esotici e segnatamente in ratti) e con altri amanti di questi animali che nella maggior parte dei casi mi hanno consigliato la sterilizzazione sia come strumento di prevenzione di tumori mammari (purtroppo molto frequenti nei ratti) sia come possibile «metodo pacificatore». Anche se su quest’ultimo punto le voci sono state quasi sempre discordanti. Sta di fatto che un giorno mi accorgo che Punky, mentre è sopra le mie gambe, ha una piccola ciste/pallina sulla schiena. Non aspetto che due giorni e la porto immediatamente dal veterinario. Colgo quindi l’occasione per affrontare nuovamente la questione sterilizzazione, poiché, già che sarebbe andata «sotto i ferri», forse poteva essere l’occasione per procedere alla sterilizzazione. Che decido però sia quella chimica e non chirurgica. Consiste nell’inserimento di un chip, come quello che viene inserito ai cani ma molto più piccolo, sotto la cute che regola il rilascio di ormoni. Ho preferito questo approccio perchè ho ritenuto fosse il meno invasivo e anche perchè devo sempre fare i conti con il fatto che, non potendo toccare i ratti liberamente, non avrei potuto controllarla nel caso si fosse toccata la ferita o sfilacciata i punti e non fossi riuscita ad intervenire per tempo. Se da un lato la sterilizzazione chimica offre dei vantaggi, dall’altro devo fare i conti con la durata del trattamento. Non si hanno dati certi, ma si stima che il chip possa funzionare 6-8 mesi, dopo di chè l’effetto dovrebbe svanire. Per non parlare del prezzo, ben 100 euro! Ebbene sì, non basta che salvi degli animali da un laboratorio ma visto che in pochi ancora oggi si occupano di questo tipo di animali devi anche sborsare un capitale! Poi però penso a dove sarebbero se non fossero a casa mia…e passa tutto! L’intervento comunque è andato bene, non si sa esattamente cosa fosse quella ciste, avrei voluto fare un esame istologico ma mi è stato sconsigliato per il prezzo estremamente elevato. A quanto pare si è trattato di una semplice ciste (lo spero). Anche il chip sembra stia dando i suoi frutti. Non so se è una casualità, ma dopo aver reinserito Punky in seguito alla degenza – durata circa 10 giorni (il tempo necessario affinchè la ferita si rimarginasse completamente) le lotte, almeno per ora, sembrano cessate e sembra regnare una strana armonia.

Ho anche la sensazione che si siano come adattate ai ritmi umani. La notte infatti, per quanto siano sempre attive e giocherellone, sembrano più tranquille e diventano più attive fino a tarda mattinata. Quando rientro a casa la sera di solito dormicchiano, ma come mi sentono (non so se avvertono l’odore o le vibrazioni) si mettono subito sull’attenti, escono dai loro nascondigli con la loro testolina e mi guardano con quegli occhietti di un rosso rubino che a molti suscitano fastidio o disgusto, mentre io vado in brodo di giuggiole. Poi prendo tre chicchi di mais, di cui vanno ghiotte – che tra l’altro le aiuta, sgranocchiandolo, a contenere la crescita continua dei denti – e gliene do uno a testa, fremono, impazziscono letteralmente per il mais, devo sbrigarmi e darglielo contemporaneamente a tutte e tre altrimenti si ingelosiscono! Le riconosco immediatamente solamente da come si approcciano: Punky arriva di corsa, sembra mi voglia staccare un dito per quanto è ingorda di mais ma poi arriva, mi mette le manine (sono proprio mani e non zampe!) intorno al dito e con tutta la delicatezza e leggerezza di una piuma se lo porta via. Janis arriva invece molto pacata e quasi timorosa, ma lei sì, se non sto attenta mi staccherebbe un dito! Milla…lei è una signora, sembra una ballerina, arriva in punta di piedi, mi guarda e mi prende un chicco di mais, poi non contenta ritorna, ancora col mais in bocca e me ne chiede un altro, Milla è così, finche non ne ha due non ne vuole sapere di andarsene! E il siparietto si ripete tutte le volte!

Mi capita spesso di volerle stringere e riempirle di coccole, sono così belle, candide, innocenti. Ma per ora mi limito ad osservarle, rispetto i loro tempi e la loro condizione. Mi diverto ad osservarle mentre giocano con l’altalena di legno, mentre si inseguono nei tubi di plastica o quando porto loro dei giochini nuovi, come le pannocchie di legno che portano in giro su e giù per tutta la gabbia (soprattutto di notte, facendo un rumore pazzesco!). Mi emoziono quando le guardo dormire, serene, beate, tranquille. Punky dorme spesso nella casetta di legno, le piace appallottolarsi sopra degli straccetti che metto loro a disposizione. Milla e Janis invece dormono in un tubo di pile per furetti. Hanno diversi luoghi dove poter dormire, dei cappelli, delle tasche e due amache, una di pile e una di cotone ma il tunnel per furetti è il loro posto preferito. Spesso dormono tutte e tre insieme. Alcune volte sono egoista, le spio sapendo che come non appena si accorgeranno della mia presenza si sveglieranno e sistematicamente succede! Baffi e orecchie si rizzano e Punky è quasi sempre la prima che mi accontenta venendomi incontro. Poi mi guarda, chissà cosa pensa (forse che per l’ennesima volta l’ho disturbata inutilmente) e si rimette a dormire.

Le riguardo tutte e tre dormire serenamente, a volte mi viene il magone, un misto tra gioia per averle lì con me e rabbia per quello che capita, quotidianamente, ai loro fratelli e sorelle nei laboratori di tutto il mondo.


Commento di Agnese Pignataro

L’esperienza personale narrata da Francesca De Matteis, oltre a rappresentare una testimonianza notevole ed interessante, ci sembra una bella occasione per interrogarci su alcune implicazioni concettuali di situazioni di convivenza concreta con gli animali.

Leggendo con attenzione il racconto, la relazione vissuta da Francesca appare come non meramente biunivoca, ma dipanata lungo tre direttrici: quella tra lei e le ratte, quella tra lei e la sua coinquilina attraverso le ratte, e quella nei confronti di se stessa attraverso le ratte.

La relazione tra Francesca e le ratte si svolge lungo un percorso di «apprendistato» reciproco attraverso le tappe dell’incontrarsi, frequentarsi ed imparare a conoscersi. Colpisce l’utilizzo da parte di Francesca di immagini antropomorfe per riferirsi ad alcuni comportamenti delle ratte: «un po’ come succede agli esseri umani in certe situazioni in cui il primo fatica a sempre a parlare, ma poi, una volta rotto il ghiaccio, a ruota lo seguono tutti…»; «mi mette le manine (sono proprio mani e non zampe!) intorno al dito…»; «Milla è una signora, sembra una ballerina, arriva in punta di piedi…». Come interpretarle? Una confusione di piani, una sorta di distorsione della realtà, come sostiene chi accusa gli animalisti di «umanizzare» gli animali? Una proiezione accaparratrice da parte di una rappresentante della specie dominante, come potrebbe sostenere qualche antispecista radical chic? Volendo andare al di là di pregiudizi e stereotipi, non potremmo invece vederle come una semplice tappa del processo spontaneo con cui l’altro viene ammesso nel proprio mondo?

Nel racconto di Francesca, un passaggio ci ha colpite in modo particolare. Parlando della sua coinquilina, Francesca dice: «mi resi conto di aver trovato una persona di un’apertura mentale straordinaria». Anche qui si apre la possibilità di superare un luogo comune, quello che vede la preoccupazione per gli animali contrapposta e concorrente a quella per gli esseri umani. È evidente come per Francesca l’esperienza di incontro con le ratte rappresenti anche un’opportunità di scoperta nei confronti di un altro essere umano. La condivisione di una responsabilità di cura, dell’investimento e della ricchezza di emozioni (positive e negative!) che essa comporta, può portare alla creazione di un legame profondo e duraturo tra due (o più) esseri umani, qualunque sia il destinatario della cura (bambino o adulto, umano o non umano).

Infine, Francesca ci svela anche alcune tappe del suo percorso di apprendimento della cura, in particolare in ciò che riguarda la necessità di prendere decisioni per l’altro, con tutti i dubbi e le lacerazioni che questa responsabilità implica: Francesca parla infatti della sterilizzazione delle ratte come di una «scelta sofferta». Anche qui, si potrebbe giudicare questa scelta in modo negativo, leggendola come un atto di invasione dell’autonomia dell’altro, di illegittimo intervento sul suo corpo o quant’altro. Reazioni di questo tipo si iscrivono perfettamente in quella visione del mondo che l’etica del care ha definito «etica della giustizia» (e che a noi sembra possibile identificare con certe forme di ultra-liberalismo o anche di anarchismo ultra-individualista…), secondo la quale ogni essere umano (ed eventualmente non umano) è un atomo, una sorta di contenitore di determinate facoltà e libertà che esso può (e deve!) esercitare in totale autonomia. Sfuggono a queste visioni le situazioni della vita concreta, nelle quali la vulnerabilità degli esseri senzienti e la loro interdipendenza si fanno evidenti, portando a volte qualcuno a dover intervenire nella vita di qualcun altro attraverso «sofferti» percorsi di riflessione, contestuali e personali, come quello di Francesca, spesso costellati da un senso di impotenza che porta all’amara constatazione di non poter fare altro che scegliere il male minore (la «strana armonia»). Tali percorsi non sono in gran parte ignorati dall’attivismo antispecista e vegano «standard»? Eppure hanno altrettanta dignità della scelta di smettere di mangiare questo o quel prodotto di origine animale; tali percorsi non comportano un grosso investimento in termini di riflessione e di coinvolgimento emotivo e non sono tanto più gravi e difficili quanto i loro effetti sono immediati e visibili nella vita di chi li compie (contrariamente a scelte come quella vegana)? Sono situazioni che non possono non incidere sul vissuto di chi vi si trova coinvolto, non nei termini del cosiddetto «cambiamento della sensibilità» operato dalla scelta vegana, ma di un «approfondimento» dell’esistenza, in cui quest’ultima ci si rivela nei suoi caratteri più complessi e sfaccettati come essere al mondo sempre e necessariamente insieme con altri e, volenti o nolenti, nel bene o nel male, in contatto con altri.

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